Un nuovo femminicidio a Cisterna di Latina. Accade un’altra tragedia dove, nel febbraio dello scorso anno, un carabiniere già sospeso dal servizio, Luigi Capasso, aveva ucciso le figlie Martina e Alessia, 7 e 13 anni, e ferito gravemente la moglie Antonietta Gargiulo a colpi di pistola, togliendosi poi la vita con la stessa arma d’ordinanza. È lo stesso quartiere popolare, San Valentino, dove abitava Desiré Mariottini, la ragazzina drogata, violentata e lasciata morire in un rifugio di sbandati a San Lorenzo, a Roma.



Questa volta un autotrasportatore uccide la moglie, dalla quale si stava separando, per poi andare a lavorare, lasciando che a trovare il cadavere sia la figlioletta di dieci anni. I latini dicevano laeta domus laeti habitantes per dire che in una casa, in un quartiere, dove si coltiva l’etica del bello e della gioia, anche le persone sono felici. Questa volta pare di poter dire che in una periferia dove non ci sono speranze, o almeno sembra che sia difficile avvertirle, varcare la soglia dell’umano per diventare bestie non è poi così difficile.



Se l’incuria e l’indifferenza ci circondano, ci sentiamo abbandonati da tutti. Se respiriamo aria solitaria di crisi e di povertà, è più semplice che la crisi di una coppia diventi tragedia tanto da arrivare al punto che, chi ammazza la moglie, poi va lavorare e non si fa scrupoli che a trovare in un lago di sangue la moglie sia la figlia di dieci anni, una bimba che riesce solo a chiamare un parente dicendo “venite perché la mamma si sente poco bene”.

Forse il padre neanche ci ha pensato al fatto che lasciava la figlia da sola davanti alla tragedia: se diventi un animale ferito e rabbioso ti trasformi in un essere incapace di raziocinio e sentimento. Le responsabilità penali sono personali e mi auguro che quest’uomo paghi per il reato compiuto, ma certamente credo che quando una comunità vive in modo tanto ravvicinato simili tragedie si imponga il dovere di una riflessione comune. A partire dalle famiglie, dalla scuola, dalla parrocchia. Ma anche dai giardini pubblici, dalle strade, da centri di ascolto.



Un tempo pensavamo che le città di periferia, essendo meno numerose e più a misura d’uomo, fossero più solidali. Aiutassero di più a evitare simili tragedie. E invece pare che non sia così. Ci vuole uno sguardo umano nelle città e, parrebbe, ancor più nelle periferie. È necessario un di più di umanità affinché in esse crescano persone pronte a sostenersi o quanto meno ad accorgersi delle difficoltà degli altri. Invece, ormai anche nelle periferie del nostro Paese siamo calati in un tipo di società dove l’urlo e la violenza sono normali, nessuno si stupisce di nulla finché non ci scappa il morto.

Cominciamo da ciò che è possibile: giardini pubblici praticabili, scuole inclusive, trasporti efficienti, iniziative culturali gratuite o a costi bassi. Sono argini importanti, anche se non decisivi, contro la violenza e la disperazione. Una strada pulita è una strada che mostra uno spiraglio e incoraggia a chiedere aiuto. Chiediamoci quante volte le nostre periferie, quelle delle grandi città ma più in generale anche quelle del nostro Paese, diventano viscere vuote, buie, chiuse a tutto e a tutti. Luoghi di violenza e di disperazione pronti a scoppiare fino alla prossima diretta tv, fino alla prossima trasmissione sensazionalistica che poi lascia le cose come prima o anche peggio.