La prostituzione minorile è un fenomeno di cui in questi giorni si parla molto in Italia, dopo il caso delle studentesse romane. Casi, quelli italiani, che riguardano in modo scioccante famiglie più o meno benestanti di un paese, l’Italia, che, nonostante la crisi, è ancora uno dei più ricchi del mondo. “Non vedo qual è il problema… a parte che io sono minorenne, ma se fossi stata maggiorenne, come lo fanno molte persone, nessuno mi avrebbe detto niente”, ha detto una delle giovani al pm durante gli interrogatori (la stessa Procura di Roma potrebbe aprire un fascicolo per reato di rivelazione di segreto d’ufficio). Parole che lasciano attoniti per la loro naturalezza, per la scioccante “normalità” con la quale le giovani raccontano i dettagli della loro seconda vita. “Avevo messo su Google: come guadagnare soldi” spiega un’altra quando racconta come è nato tutto. “Volevo lavorare per comprarmi cose griffate, volevo avere i miei soldi per comprare tutto ciò che mi piaceva”. Non è così in altre parti del mondo, come in Brasile, dove a vendere il proprio corpo molte donne sono costrette da situazioni di violenza, abusi, fragilità, famiglie assenti o violente, povertà estrema; dove le madri, spesso, obbligano le figlie a prostituirsi per sopravvivere. 



Proprio in Brasile un ex giornalista inglese, Matt Roper, venuto a contatto con questa drammatica realtà, ha abbandonato patria e lavoro e ha aperto una fondazione in Brasile con lo scopo di aiutare queste ragazzine, spesso anche di soli 9 anni, a uscire dal giro della prostituzione. 

La sua storia è raccontata in un libro drammatico, Highway to Hell, che non è la nota canzone degli Ac/Dc, ma un’autostrada brasiliana, la BR-116, dove queste bambine si prostituiscono a centinaia. Qui Matt per la prima volta si è trovato davanti a storie terribili, come quella di Leliah, una ragazzina di 13 anni che si prostituiva e faceva uso di crack. Ecco quello che ci ha raccontato in questa intervista (la sua fondazione si chiama Meninadança; a questo indirizzo si può trovare ogni informazione e come sostenerla).



Lei faceva il giornalista, come è venuto a conoscenza del dramma delle bambine prostitute che svolgono la loro attività sulla BR-116?

È stato un fatto davvero casuale. A quei tempi lavoravo come giornalista a Londra al Daily Mirror. Ero già stato in Brasile anni prima, a vent’anni. Lavoravo per un ente benefico che si occupava dei bambini che vivono per la strada a Belo Horizonte e conoscevo già abbastanza bene quel paese. Già allora scrissi un libro che si occupava della prostituzione minorile in Brasile (Remember Me, Rescue Me). Poi, dieci anni dopo, successe qualcosa di pazzesco.



Racconti.

Ricevetti una mail da un cantante country canadese, Dean Brody, che aveva letto il mio libro e voleva sapere cosa poteva fare per poter essere d’aiuto. Venni a scoprire che Dean era molto famoso in Canada e diventammo grandi amici. Non avevo mai pensato che avrei potuto lasciare il mio lavoro di giornalista, il giorno in cui ci mettemmo d’accordo di incontrarci in Brasile per metterlo in contatto con alcuni progetti di cui ero a conoscenza e che avevano bisogno di aiuti economici. Uno degli ultimi giorni che dovevamo passare insieme decidemmo di fare un giro per il paese ed è così che incontrammo questa ragazza, Leilah, all’una e trenta del mattino.

Come accadde? 

Quell’incontro fu il classico momento scioccante che cambia una vita. Successe che invece di dirigerci alla spiaggia dove volevamo andare, continuammo a guidare e imboccammo questa autostrada, dove con orrore ci capitò di vedere bambine di soli 9 anni che si prostituivano, tra cui Leilah. Il giorno dopo ci fermammo in una cittadina, Medina, e di nuovo per pura occasione incontrammo un’assistente sociale di nome Rita. Dopo pochi minuti che parlavamo con lei eravamo tutti e due in lacrime: ci parlò di questa tragedia di immense proporzioni, ragazzine obbligate a vendersi dalle loro famiglie a 11, 12 anni, malate di aids. Ragazzine caricate su dei camion e poi scomparse per sempre. Avemmo occasione di incontrare alcune di loro e ce ne andammo realmente in stato di shock. Fu allora che decisi di lasciare il mio lavoro e di trasferirmi in Brasile con la mia famiglia, e di investigare su questo dramma.

 

Cosa vuol dire incontrare queste bambine? 

Si tratta di bambine il cui sviluppo è stato spazzato via. Cercano attenzione, hanno bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro. Ci sono state volte a cui ho detto loro che valgono di più di quello che sono state ridotte a fare, più di quanto loro pensano di valere e ogni volta scoppiavano a piangere. È facile parlare con loro, sebbene bisogna capire cosa intendono quando parlano di prostituzione. Difficilmente ne parlano in modo esplicito, piuttosto usano frasi come “andare fuori con degli amici”.

 

Ha mai avuto problemi con la criminalità che sta dietro a questo traffico?

Ci sono state delle volte in cui mi sono sentito in pericolo, molti criminali che ottengono profitto da queste situazioni e non vogliono che si portino via queste ragazze dalla strada. Una volta, quando andammo a portare via una ragazza, Marianna, dal bordello dove lavorava, mi accorsi che due persone con le pistole in mano si stavano dirigendo verso di me, ma fortunatamente riuscimmo a fuggire via in tempo. Bisogna stare molto attenti, anche perché in questo traffico sono coinvolti poliziotti, giudici, autorità.

 

La storia di Leliah è particolarmente dolorosa. È ancora viva?

Ho sempre pensato che nessuna di queste ragazzine non possa in qualche modo essere recuperata. Il problema di Leilah è che è dipendente dal crack quindi anche se inizialmente aveva accettato di farsi aiutare,il suo caso è particolarmente difficile e complicato. In passato avevo lavorato con persone dipendenti dal crack a Belo Horizonte e so quanto difficile è aiutarle. Purtroppo, siccome la nostra fondazione non ha delle sedi nella città dove vive Leliah, non siamo più riusciti ad aiutarla. È stato davvero doloroso vederla sprofondare in questo abisso senza alcun desiderio da parte sua di cambiare vita. È un esempio di come queste ragazzine possano perdersi del tutto e quanto urgente sia invece occuparsi di loro.

 

Come è nata l’idea della vostra fondazione? Avete degli aiuti da parte del governo o vi affidate solo a un sostegno privato?

Non è stato così difficile, la fondazione è partita inizialmente in Inghilterra e Dean ne ha aperta una uguale in Canada. Dopo che abbiamo cominciato a spargere la voce, molta gente è venuta in nostro aiuto, donando dei soldi una volta al mese in modo continuativo. Quindi siamo riusciti ad aprire quella che chiamiamo la Casa Rosa direttamente in Brasile. Vorremo fare di più, vorremmo aprire altre case analoghe, ma al momento non abbiamo abbastanza soldi. Abbiamo chiesto sostegno al governo, ma in Brasile devi essere registrato a un albo speciale per due anni prima di ottenere denaro.

 

Quante ragazze ospitate nella vostra struttura?

Al momento ne abbiamo sessanta che vengono da noi ogni giorno. Abbiamo delle terapie specifiche come corsi di danza, studi artistici e un salone di bellezza. Teniamo degli incontri fissi dove le ragazze sono incoraggiate a raccontare di loro stesse e discutere di argomenti come la famiglia, progetti di vita e cose del genere. Ci aiutano assistenti sociali, psicologi, medici.

 

Cosa significa il nome della fondazione, Meninadança?

Significa: “ragazza, danza!”.

 

Davanti a che tipo di esperienze vi trovate con queste ragazze?

Ognuna di loro ha la propria storia. Alcune sono particolarmente indurite dalla vita da prostituta che hanno fatto, altre sono state sfruttate da membri della loro famiglia ma non lo vogliono ammettere, altre sono state vittime di abusi. Molte di loro sono vulnerabili, rischiano di tornare a fare quella vita. Siamo ancora agli inizi della nostra esperienza, ma abbiamo visto cose incredibili, ragazze che hanno capito il loro potenziale e che nella vita possono raggiungere obiettivi concreti di cambiamento. Al momento stiamo sviluppando un team che si occuperà delle loro famiglie, in modo da cambiare la mentalità che rende possibile questa prostituzione minorile.

 

Sul vostro sito lei ha scritto una frase molto bella: “sino al giorno in cui le ragazze non saranno protette e considerate per quello che sono davvero, fino al giorno in cui la prostituzione non sarà più tollerata, sino a quando la luce di Dio e l’amore non penetreranno ogni luogo oscuro”. Lei è credente?

Sì, sono un cristiano praticante. La nostra fondazione è basata sui valori del cristianesimo e della giustizia sociale, ma non escludiamo nessuno in base alla religione di appartenenza o meno. Nel nostro staff non tutti sono credenti e la nostra priorità è comunque salvare le ragazze da quella vita, non chiediamo loro se sono credenti o meno. Con quella frase volevo dire che in quanto cristiano io non posso ignorare chi soffre. Se posso portare speranza e giustizia in alcuni di quei luoghi oscuri dove i bambini sono abusati, allora la luce di Dio penetra in quei luoghi oscuri.

 

In tutta questa esperienza straordinaria che lei sta facendo, c’è stato un momento, un episodio, che l’ha colpita in modo particolare?

Ci sono stati molti momenti del genere. Ad esempio una delle prime volte che abbiamo organizzato un evento di danza pubblica nella piazza centrale di Medina. Era la piazza dove molte delle nostre ragazze passavano le loro giornate e dove molti uomini le addocchiavano. Le ragazze furono davvero coraggiose a mostrarsi in pubblico proprio lì. Chiesi a Rita di dire qualcosa in pubblico e lei disse davanti a tutti che le cose erano cambiate, che nessuno doveva più permettersi di guardare a queste ragazze come oggetti del loro desiderio. Molta gente che era presente quel giorno scoppiò a piangere.

 

Vuole ricordare, dopo Leilah, di un’altra ragazza?

Uno dei momenti più belli è stato quando siamo riusciti a portar via Marianna dalla sua casa, dove la madre l’aveva costretta a prostituirsi. In seguito le abbiamo ricongiunte, facendole vivere di nuovo insieme e oggi Marianna è una ragazza felice, che va benissimo a scuola e sta progettando di andare all’università.

 

(Paolo Vites)