Ci è voluto un po’, ma adesso sono proprio decisa: per una sera voglio mettere da parte il grembiule da cucina. E con lui, la prassi scontata che sia sempre la sottoscritta a rifocillare tutta la tribù. Alcune settimane fa, il presidente della Camera – citando le madri di famiglia che servono in tavola tutte le sante sere – ha gridato allo scandalo. Subito, la polemica mi ha lasciata un tantino perplessa; ma a forza di ripensarci su, alla fine ha provocato in me una certa dose di femminismo latente. Così, ora voglio provare a fare diversamente: a venti minuti dalla cena, dichiaro sciopero. Che qualcun altro – marito o figli – mi chiami a tavola solo quando è tutto pronto per sedersi.          



All’ultimo minuto avviso la manovalanza che dovrà improvvisare, consegno il timer del forno al figlio minore e sparisco nello studio. In fin dei conti, devono cavarsela solo per metà: la pasta in forno è quasi cotta e l’insalata – già a mollo nell’acquaio – è pronta per essere asciugata. Insomma, non resta loro che apparecchiare e scodellare in tavola qualcosa che non hanno neppure generato: la stessa fatica di chi partorisce da un utero in affitto.      



Sparita nella stanzetta, alzo l’occhio sull’orologio dopo un quarto d’ora. Niente. Tutto tace. Eppure, dovremmo esserci. Poi, al quarantesimo minuto, sul fotofinish sento finalmente chiamare in campo il mio nome. Come mi catapulto in sala, pronta a prendere posto, scopro che il mio posto non c’è. O meglio, la sedia è sempre lì, ma invece della tovaglia di fiandra spiccano cinque tovagliette all’americana più disparate e diverse di un variopinto corteo di topless. E dietro il bicchiere della nutella, ecco che vedo svettare il mio piatto: un rotondo vassoietto in melammina di Peppa-pig. Ecco benservita la mia quota rosa. Comunque, al di là dell’assortimento da circo, l’importante è essere servita, mi ripeto. E sono subito accontentata: il marito afferra il mio foulard di Hermes – lasciato incustodito in sala da pranzo – apre il forno e mi mette davanti la teglia con la lasagna all’uovo. La stessa che ho congelato dopo tanta cura tre sere fa quando non riuscivo a prendere sonno. Ussignùr, stento a riconoscerla. L’hanno lasciata troppo in forno. Del suo inconfondibile colore giallo mimosa, tipico della sfoglia croccante, non resta che un angolino: il resto ricorda la pelle abbrustolita di una schiava sudista che raccoglie cotone da mattina a sera.



Ora: è vero che sono stata io stessa ad abdicare dai fornelli, ma l’idea che qualcuno si sia arrogato il diritto di abortire così la mia lasagna mi fa salire un moto improvviso di risentimento. Che cerco subito di placare. Conficco con forza la forchetta. Sbocconcello e ascolto. Esamino il resto della famiglia e sorseggio acqua tiepida dal mio bicchiere di Sponge-Bob.

Resisto. Soprattutto alla tentazione di alzarmi di scatto dalla sedia per andare ad afferrare la ciotola dell’insalata: aspetto con pazienza che mi venga servita. Finalmente, arriva. Come affondo la forchetta nello zuppierone della lattuga, ne riemergo con un pugno di alghe: nessuno ha pensato bene di dare una centrifugata alle foglie verdi, a fargli fare quei tre giri di spirale che l’avrebbero resa alimento commestibile anche a chi un pesce non è. Pazienza. Faccio finta di nulla, spremo per bene la mia lattuga nel piatto come un tiralatte e deglutisco un boccone neppure condito.     

Diciamo che ne ho a sufficienza; o meglio, dovrei dire che ”Il corpo è mio, e qui la fame me la gestisco io…”.  Decido che l’esperimento finisce qua.    

Come mi alzo da tavola, faccio nervosamente un nodo in fondo al fazzoletto; domattina mi devo assolutamente ricordare di prendere la pillola del giorno dopo: sì, quella per la pressione alta.cE mentre aiuto mio marito a sparecchiare le stoviglie, non posso fare a meno di costatare che stasera è stato zitto, ma intuisco che gli è mancato qualcosa: una tovaglia stirata, piegata e sottomessa a un signor piatto di porcellana; una tavola dove “tutto è dove deve essere e va dove deve andare”; una mensa imbandita come fosse una tavolozza.  

Ormai ne sono convinta: che se per una volta non preparo io, quel che gli manca è un’artista. E non una serva.