Apprendere di una moglie picchiata dal marito sconcerta. Se poi il pretesto è che lei non gli aveva domandato il permesso per portare a fare un giretto in passeggino la piccola, fa ancora più indignare. Così come fa indignare un uomo che considera la moglie di sua proprietà, e di conseguenza ritiene di poterla trattare come vuole. Davanti a un tale abuso, è fin troppo facile limitarsi a liquidare l’accaduto col bollino del raccapriccio. Ma la questione è più complessa di quanto non appare, perché mette a tema il difficile rapporto di proprietà reciproca insito nel legame del matrimonio. Fin dove è lecito affermare che l’altro ci appartiene? Due settimane fa, con mio marito sono andata al cinema (il film l’ho scelto io). Ad un certo punto sullo schermo, un’avvenente stagista della Grande Mela si avvicina al marito della protagonista, sfiorandogli maliziosamente l’orecchio. Quando è stato palese che non era per levargli una mosca, dalla penultima fila si è levato un acuto “Jack è suo, bastarda….!”.



Ora, un possesso di questo tipo è più che comprensibile. Ci sta. Il punto è vedere fin dove si può estendere: gli sbandamenti del possesso non si rilevano solo dopo grossi incidenti come quello che ha coinvolto la coppia indiana, ma forse sono più comuni di quanto non si voglia ammettere.      

Tanto per cominciare, anche noi donne ne dimentichiamo spesso i limiti e sconfiniamo come le truppe francesi all’invasione della Prussia. La Prussia è ovunque.      
Al ristorante: menù alla mano, lui sgolosa davanti al “trionfo di fritto misto” e lei gli intima di ordinare mezza spigola al vapore, pena una settimana a seguire a colpi di minestrone. 
Nell’etere: lui si ferma a prendere la birra del venerdì sera coi colleghi prima di rincasare e lei – facendone una tragedia – lo tormenta con telefonate di richiamo che evocano la tempesta di Shakespeare; volesse mai il cielo che lui ritardasse alla riunione di condominio delle 21….        
In camera da letto: scagli la prima pietra colei che non ha mai “involontariamente” confuso un banale attacco di sonno con un’emicrania paralizzante…        
I confini del possesso sono molto elastici e soggetti a una quantità tale di punti di vista, che vanno bel oltre le cinquanta sfumature… Di questo passo non mi meraviglierei se un marito fosse costretto a chiedere alla moglie il permesso per scendere a prendere le sigarette; magari fino al paradosso estremo “Cara, posso lavare i vetri ora? Ho l’autorizzazione per portare di sotto i cinque sacchetti dell’indifferenziata?”. Il rischio c’è.       



Così, come c’è il pericolo che tra i due coniugi si crei un equilibrio basato sull’indifferenza, uno stato di non belligeranza dove il potere dell’uno sta bene attento a non pestare i piedi a quello dell’altro. Come in una balera estiva. Conosco coppie che si dividono strettamente i compiti e patteggiano tra loro come con le banche: l’uscita settimanale, la spesa in profumeria, la durata del pranzo dagli suoceri. In un contesto così, già vedo declinarsi la scena dello scandalo iniziale: la prossima volta che Mrs. Trattativa uscirà a farsi una passeggiata con la piccola, che poi non si aspetti di essere cercata. Probabile che lui abbia già aperto Quattroruote, una birra, l’acqua della vasca, il sito del pizza-express, l’agenda… Se lei non rincasa troppo presto, Mr.Negoziato & Friends riusciranno pure a vedersi la fine del derby in santa pace.



La mia storia non è esente da pecche. Difficilmente impartisco ordini. Un po’ perché non è nella mia natura, un po’ perché ho già le mie belle difficoltà a farmi obbedire dal Bimbi quando lo imploro di rimestare tre uova nella farina. Però inciampo spesso anche io nella tentazione di potere, e la mia forma di possesso si chiama “programma”; ho un programma per tutto, come i migliori partiti. Forse è per questo che talune volte mi par di vedere un guizzo balenare negli occhi di mio marito: il guizzo di potermi per un attimo maneggiare alla stregua di un aggeggio a batteria – che so – un telecomando. Sì, perché così potrebbe ogni tanto allentarmi le pile. Per esempio, al sabato mattina: quando io – indifferente al giorno del riposo del guerriero –  come da programma m’alzo sempre all’ora del tran-tran settimanale: prima delle otto spalanco le finestre, ribalto la camera, corro di là… (c’è da scongelare il pollo, svuotare la lavastoviglie….). Certo, a un certo punto mi riequipaggerebbe della mia batteria; diciamo verso mezzogiorno, quando – resosi conto che nessuno s’è preso la briga di scongelare il pollo – il mio lui realizzerebbe che una mano non guasterebbe.  Se fosse, non riuscirei a biasimarlo troppo.      

Davanti a questi rischi di sbilanciamento del potere – da una parte o dall’altra – la sfida è riuscire ad affermare un possesso dentro la libertà. Io voglio che tu sia mio e al contempo desidero essere tua: mi sottometto a ciò che mi chiedi, perché certa che la tua richiesta tiene conto della considerazione, dell’amore e del desiderio di compimento che tu, caro marito, hai per me. Come un germoglio di rosa, che si affida al suo premuroso giardiniere, piena di certezza: che lui la annaffierà, se ne prenderà cura e un giorno la farà sbocciare. Un’immagine bucolica che solleverà il raccapriccio delle femministe, ma che rende l’idea di come i due poteri non devono per forza essere in opposizione ma possono lavorare in sinergia.

Solo in virtù di questo possesso nella libertà, riuscirò – almeno per un sabato – a resistere alla tentazione di alzarmi per far partire la macchina domestica e decidere di rimanere tra lenzuola ancora un po’ per non svegliarlo.    
Chissà allora che sorpresa sarà intravederlo arrivare un bel mattino col vassoio della colazione a letto. Magari starò solo sognando (probabile).      
O anche no: nella smisurata libertà di chi fa un gesto per il gusto che racchiude in sé – sciolto da ogni possesso – tutto è possibile.