Niente di più facile in Italia che aggirare una legge, meglio ancora se si tratta della mancanza di una legge, ed è quanto si appresta a fare il Consiglio Nazionale del Notariato con i “Contratti di convivenza open day”.
Il punto di partenza è rappresentato da una semplice statistica: in Italia le famiglie di fatto in cinque anni sono raddoppiate. Attualmente sono oltre un milione e le convivenze tra partner celibi e nubili sono quelle che hanno fatto registrare l’incremento più sostenuto.
L’Open day proposto dal Consiglio Nazionale del Notariato vuole essere una occasione dedicata alle coppie di fatto, perché capire meglio come tutelare i propri diritti, soprattutto quando le cose non vanno più così bene come vorrebbero… Il “patto di convivenza” dovrebbe regolare quelle forme di convivenza fra persone che scelgono di intraprendere un percorso comune, ma non vogliono o non possono ufficializzarlo attraverso il matrimonio. Vogliono però attribuire rilevanza giuridica alla loro convivenza, per garantire a se stessi e ai propri figli una serie di diritti, che potrebbero venir meno nel momento della separazione, tanto più se non consensuale.
Ed è questo il punto più originale della proposta su cui vale la pena riflettere: quando ci si ama si sta bene insieme e nessuno pensa ad un’eventuale separazione, i guai cominciano subito dopo. In un primo tempo è naturale condividere affetti e programmi comuni, spazi e tempi, sogni e risorse economiche necessarie per realizzarli. Ma, come è ben noto, spesso i sogni muoiono all’alba, soprattutto quando gli impegni presi sono ad tempus, come è tipico nelle coppie di fatto. “Staremo insieme finché staremo bene insieme, dopo di che ognuno per la sua strada”.
Ma la cosa non è così semplice come sembra, perché nel periodo di convivenza, breve o lungo che sia, si sono creati nuovi vincoli, probabilmente sono nati dei figli, si sono fatti degli acquisti importanti, si sono accumulati dei beni immateriali di cui è ben difficile stabilire la proprietà… Ed è allora che nascono i problemi e ciò che sembrava una prospettiva serena, e magari si sperava che durasse per sempre, si trasforma in un orizzonte minaccioso, caratterizzato da ripicche aspre ed amare.
Separare ciò che ha unito diventa tutt’altro che facile, perché ci si sente coinvolti nel profondo della propria intimità e si ha paura di perdere pezzi di sé, parti della propria identità. Difficile che su questo i notai possano fare chiarezza in anticipo, dal momento che si chiede ai due partner di ragionare sulla possibile rottura del loro rapporto nel momento della sua massima intensità: quando si decide di mettersi insieme. Il che implica il voler fare casa insieme, per abitarla con i propri figli, quelli che provengono da altre relazioni e quelli che nasceranno dalla loro relazione.
È il paradosso della proposta notarile: ragionare di rottura quando le cose vanno bene, perché si presuppone che in quel momento se ne possa ragionare più serenamente, mentre in realtà è ampiamente prevedibile che in quella fase non se ne voglia ragionare affatto, proprio per sostanziare la già debole qualità del loro impegno reciproco. Ma soprattutto in quel momento non si sono ancora creati i vincoli che scaturiscono dalla convivenza, dalla naturale ritualità del quotidiano, da quell’abitudine a stare insieme che induce a condividere le risorse che ogni giorno si investono nella relazione, dagli affetti agli oggetti, dalle risorse emotive a quelle economiche…
In sostanza inizialmente ci si mette insieme con una certa facilità, ma si vuole essere liberi di vivere la propria vita sentimentale senza ritualità forzose; non si intende rendere conto a nessuno delle proprie scelte, per poterle gestire in piena autonomia. Ma quando ci si separa, in un contesto privo di punti di riferimento chiari, senza regole e senza norme, ci si sente tremendamente soli e niente affatto tutelati. Molto più soli che se ci si fosse sposati e si avesse dalla propria parte un patrimonio giuridico e culturale, che definisce i confini della relazione dall’inizio alla fine. Ci si sente spesso in balia del partner più forte, più aggressivo e più determinato.
I notai non hanno voluto prendere atto che la legge non c’è ancora, nonostante ci siano stati tanti progetti in tante legislature diverse, perché le perplessità sono ancora tante, troppe. Il parlamento finora non ha trovato una mediazione soddisfacente e credibile tra i diversi disegni di legge e i tentativi fatti con i Dico, i Pacs, fino agli ultimi, i DiDoRe!, tutti hanno sempre innescato polemiche a non finire senza raggiungere il consenso necessario neppure tra i diretti interessati. Eppure già da ieri, 2 dicembre 2013, per il Consiglio Nazionale del Notariato si può stipulare un contratto di convivenza, in attesa che venga approvata una proposta di legge, forse quella del Pd, che inserisca nel codice civile italiano il riconoscimento giuridico dei “patti di convivenza”.
Per quanto però ci si affanni a dimostrare che i “patti di convivenza” non intendono allargare il concetto di famiglia fondata sul matrimonio, ma solo prospettare soluzioni adeguate alle nuove esigenze della società, bisogna per lo meno ammettere che impoveriscono enormemente il concetto stesso di famiglia. E lo impoveriscono alla radice, perché quel “contratto” − perché anche in quel caso si parla di contratto! − è per sua natura destinato a durare per sempre, almeno nelle intenzioni degli sposi, perché se così non fosse sarebbe nullo.
Il proprium del contratto matrimoniale è legato a quel vincolo di cura reciproca che non può venir mai meno. Quando accade, e disgraziatamente accade con una certa frequenza, è qualcosa che non era nei patti, per cui va gestito di volta in volta, rinnovando, sia pure dolorosamente, la memoria viva di un amore che c’è stato e che ha generato legami molto complessi e difficili da sciogliere.
La legge italiana non prevede patti matrimoniali orientati alla fine del matrimonio… per cui è difficile che possa prevedere patti di convivenza orientati alla fine della convivenza.