Parlar male dei cattolici è come indossare un tubino nero, non passa mai di moda, e con gli accessori giusti è adatto a qualunque occasione. Lo sanno bene Loredana Lipperini e Michela Murgia, fresche di stampa del loro ultimo lavoro L’ho uccisa perché l’amavo, della collana Idòla Laterza, che in tubino d’ordinanza nero e penna rigorosamente rossa vergano 80 pagine su un fenomeno drammatico che si consuma spesso all’interno delle reti familiari, l’omicidio delle donne per mano di uomini: ex mariti, fidanzati, partner. Al centro del libro c’è il femminicidio che le autrici definiscono come “un tipo di delitto che avviene all’interno di relazioni impregnate in una struttura culturale arcaica, che ancora non si dissolve”.
L’idea è quella di confutare tutti gli argomenti che vengono opposti all’evidenza – scrivono – che le donne in Italia vengano uccise in quanto donne. In sei brevi capitoli cercano di rintracciare un denominatore comune tra gli assassini, un fil rouge che nasce e si alimenta, scrivono, in “quel malinteso concetto di natura, uomini forti e donne deboli, uomini predatori e donne prede”, in quella dialettica di dominio in cui “ci hanno abituato a pensare che uccidere una donna che fugge, che si nega o nega il proprio amore, è qualcosa che può essere tollerato. E chi uccide va compreso perché è il nobile ferito o l’eroe decaduto”. A dimostrazione presentano una serie di titoli di quotidiani con titoli del tipo: “Raptus di follia”, “Pazzo di gelosia”, “Depresso strangola la ex moglie”, “Non volevo essere abbandonato”. Espressioni che andrebbero bandite, spiegano, perché nascondono la vittima e assolvono l’assassino.
Ma esiste il titolo giusto, che in quattro parole sappia fotografare l’insondabile dell’animo umano e dare ragione di un gesto che di ragionevole non ha nulla? Nel libro si ammette che “non c’è mai una sola ragione quando si uccide”, allora ha senso voler trovare un comune denominatore per così tanti omicidi? E se proprio un filo rosso si deve trovare, come è possibile non fare alcun riferimento al fatto che tanti omicidi maturano lì dove c’è una rottura in atto? Se oltre al titolo si scorrono questi agghiaccianti resoconti di cronaca troppo spesso troviamo un matrimonio finito, una convivenza interrotta, un tradimento, figli contesi. Non sarà politically correct ma certo non possiamo non prendere atto che uomini e donne, benché si possano prendere e lasciare come desiderano, non hanno smesso di soffrire e far soffrire.
L’ho uccisa perché l’amavo punta il dito contro la visione cristiana della donna. Nel mirino delle autrici c’è Costanza Miriano, scrittrice accusata di incolpare le donne stesse per le violenze che subiscono. Basta aver letto mezza pagina della Miriano per capire che l’accusa è infondata, basta aver letto mezza pagina della Lipperini e della Murgia per capire che a non andar giù è il concetto di sottomissione che la Miriano prende da San Paolo (“Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore” Ef, 5-22), ma che per le due autrici equivale a “porsi come pilastro portante dell’intera impalcatura del sistema di dominio patriarcale”.
Irrigidite nel binario unico del dominio non possono o non vogliono comprendere la Chiesa scardina e sovverte la dinamica del potere e del comando per riscrivere la gerarchia in termini di servizio, il più grande non è chi domina ma chi serve, e uomo e donna non hanno ruoli prestabiliti e gerarchicamente differenti, ma due vocazioni che si compensano e si completano. Ma c’è un affondo ulteriore, gratuito e inaccettabile. Si legge: “[…] la vera essenza del femminile è sacrificio, mansuetudine e sottomissione e annullamento del sé, questo è il messaggio che passa spesso in certo ambito cattolico” che comprende “l’apparente soavità delle scrittrici che vorrebbero intitolare le scuole alle madri morte per aver rifiutato di curarsi il cancro”. Il riferimento è di nuovo a Costanza Miriano che avrebbe voluto intitolare una scuola romana ad una mamma straordinaria, Chiara Corbella.
Dopo aver dato alla luce due bambini con grossi problemi di salute che sono morti dopo pochi giorni, alla terza gravidanza questa giovane mamma si è ammalata, e ha scelto di far nascere il suo bimbo, finalmente sano, prima di affrontare le terapie. Non si è affatto rifiutata di curarsi il cancro, ha lottato come una leonessa, è stata dai medici migliori, ha seguito tutte le terapie, ha fatto tutto quello che era umanamente possibile per guarire, tranne sacrificare la vita del suo bambino. Liquidare la sua testimonianza in questo modo, per giunta in un libro che ha la presunzione di insegnare a trovare le parole giuste per raccontare le donne vittime di violenza, è quanto di più brutale si possa fare nei confronti di una donna che è già morta. Ed è quanto di più eloquente possa esprimere quel femminismo declinato in battaglie e diritti, che nella presunzione di rendere la donna libera vorrebbe impedirle di abbracciare la sua vocazione più autentica soltanto perché non ha nulla da rivendicare.