Non ricordavo Massimo Di Cataldo, il suo mélo sdolcinato sanremese, che pure da un paio di lustri incanta schiere di quattordicenni in cotta adolescenziale, anche perché, nonostante abbia superato da un pezzo i 40, ostenta un viso d’angelo stile Baglioni anni ’70, che sta bene sui poster in cameretta e non inquieta le mamme. Il suo nome viene battuto incessantemente dalle agenzie da ieri, e sbattuto in pagina oggi da tutti i giornali, per una storia di cronaca. La compagna, da ben 13 anni, lo accusa di percosse gravi, e per mostrarle al mondo posta la sua immagine su Facebook, il volto livido, un labbro sanguinante. C’è dell’altro, però, che aumenta l’orrore e sconvolge anche i più avidi dipendenti del social: c’è la foto di un “grumo”, forse più di un “grumo”, forse era un bambino, che sguazza nell’acqua rossastra di un bidet. Un figlio perduto, al terzo mese di gravidanza, per le botte subite.



Le fotografie sono corredate da una lettera, postata più e più volte: ecco qua come mi hai ridotto, ecco che hai fatto di tuo figlio, e anche la bimba che abbiamo è nata per miracolo. Che tutte le tue fans sappiano che razza di uomo sei, anzi, di bambino violento, che tua figlia lo sappia. Non potrai mai più farmi male così, anche se ho sopportato per tanto tempo, anche se non ti ho mai denunciato, ora non sopporto più questa umiliazione. Vinci i tuoi premi, canta le tue canzonette che parlano di teneri amori, e vergognati a trattare così le donne. Questo il tono, con fedeltà, le parole precise le trovate virgolettate sulla rete e su qualsiasi sito, ormai.



Le reazioni sono immediate, in diretta, commenti indignati di seguaci tradite, insulti, minacce. Un linciaggio. E ci mancherebbe, se quelle foto sono vere, si spera che alla rabbia e alla sacrosanta indignazione segua indagine rapida e provvedimento d’ufficio di qualche magistrato. Se sono vere, quelle foto orribili sono la dimostrazione, una volta di più, che sulle donne si scarica segretamente sotto l’ipocrisia e il formalismo tutta la sorda belluina cattiveria umana, e di quella parte di umanità che sa come esercitare da secoli la forza, su chi è più debole e incapace di difendersi. 

Se sono vere. Perchè la compagna del Di Cataldo è un’artista, che combina pittura e fotografia. Perché lei stessa dichiara che le foto postate su Facebook risalgono a una ventina di giorni fa. E passi per le botte, troppe donne le nascondono, per vergogna, perché non possono stravolgere la loro vita, o hanno paura; e ci siamo abituati coi divi del cinema americano, si menano, si lasciano per un po’ e poi si riprendono, perchè la violenza si sopporta per soldi o notorietà, e qualche volta è pure reciproca. Ma una madre, che con dolori lancinanti espelle un figlio dal proprio ventre, ha la forza di fotografarlo col telefonino? Regge all’immagine di quell’essere palpitante che sanguina, chiude il tappo del bidet e scatta? Non dico per se stessa, ma per quel figlio, non grida di dolore e disperazione, chiedendo giustizia almeno per lui, e non denuncia la violenza? Subito, non venti giorni dopo! 

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Non trema per la paura di un’emorragia, di un’infezione, e non corre da un medico per farsi vistare, aiutare, consolare? E quale medico, se non una mammana di antichi racconti, non si sente in obbligo davanti a una scena simile di denunciare il fatto alle autorità? Non si tratta di una ragazzina straniera, sola e strapazzata da padroni feroci, costretta ad abortire da sola tra le mura di una baracca. 
Immaginiamo che un’artista nota al pubblico abbia conoscenze e soldi a sufficienza per poter domandare un aiuto naturale e necessario, vitale. Che poi, perché rinunciare a una denuncia giudiziaria per attuarne una “coram populo”, chiedendo il sostegno di una piazza virtuale, anziché delle forze dell’ordine, di uno psicologo? Per una vendetta più feroce? Il cantante ha postato, anche lui su Facebook, una frase in cui si dice sconvolto, e attribuisce la follia della donna a una storia finita. Pazzia di innamorata tradita, insomma. Un piano architettato di “sputtanamento virtuale”, e quindi più reale possibile. Se è così, questa donna fa pena, e va aiutata, dopo aver accertato senza ombra di dubbio la verità.
E va tutelata l’immagine dell’uomo e dell’artista, dice lui, anche se io mi preoccuperei soprattutto, al posto suo, del suo essere padre, della sua bambina inconsapevole e innocente, più che della sua immagine da copertina. Ma in ogni caso, c’è qualcosa di impuro e disumano e distorto, nell’utilizzo di uno spazio finto, nell’appello a una comunità di foto in posa e nomi e cognomi anonimi, per raccontare una storia così personale, per gridare la tua rabbia e chiedere aiuto. Possibile che col successo, il denaro, non siano rimasti pochi e buoni amici, con cui confidarsi, a cui chiedere consiglio e aiuto? 
Possibile che si debba strumentalizzare un bambino, se si tratta di un bambino, foss’anche per colpevolizzare un padre degenere? Un bambino, non un aborto. Un bambino. Se è morto, merita la pietà e il rispetto, non che il mondo lo veda andar via nel sangue slavato di una conduttura. Se non è un bambino… sì, un feto è una cosa, non è una persona, e come cosa possiamo servircene a piacere, un pezzo di carne, che altro?