Un neo-papà, senza ipocrisie, sintetizza il proprio sgomento davanti al proprio pargolo: “Sono un padre riluttante”. E’ così che si definisce Phillip Toledano, fotografo professionista e genitore alle prime armi. Non ha trovato definizione migliore (ma io direi azzeccatissima) per descrivere la storia dell’avversione e dell’indifferenza verso la carne della sua carne. Anche se poi – come nei migliori racconti – la trama finisce col prendere la piega più opportuna. L’oggetto del desiderio inseguito dal protagonista è il senso paterno, corrispettivo maschile di quello materno. Per i non addetti ai lavori, l’istinto genitoriale è quella vocazione ad accudire, quello slancio affettuoso a proteggere, quell’impulso viscerale che ti porta ad amare il tuo bambino sopra di tutto.
Ora: poiché la comparsa del mio senso materno è qualcosa che ricorda tanto l’estrazione a forza di un molare, figuriamoci – mi son detta – quale avversione deve superare quello paterno per venire alla luce. Praticamente, un parto. Tanto per dare le coordinate sul più comune senso materno: prima della gravidanza, i bambini mi suscitavano lo stesso entusiasmo di un passato di broccoli per cena. Se poi il buon Dio avesse voluto rischiare di affidarmene uno, nell’immaginario mio figlio sarebbe stato quanto meno un piccolo lord che recita endecasillabi dell’Odissea davanti al caminetto. Fatto sta che il buon Dio non solo ha rischiato, ma ha giocato d’azzardo ripetutamente. Tre anni più tardi, avrei pagato una puntata milionaria pur di consumare anche una mestolata di zuppa al cavolfiore in santa pace. Quanto agli endecasillabi, dopo mesi di versi ululanti che parevano quelli delle sirene d’Ulisse, pur di cambiar solfa, avrei ascoltato tutta-orecchi anche la recita della formazione del Milan davanti all’umidificatore del calorifero.
Insomma, il senso materno germoglia anche a partire da un terreno così arido. Posto che non tutte le donne abbiano vissuto la mia esperienza, posso tuttavia ipotizzare che per i mariti in generale sia anche più dura. Sì, perché loro, i padri, partono addirittura una tacca dietro di noi.
Tanto per cominciare, un uomo non beneficia di quella prossimità fisica che dura una gravidanza. Non che l’osmosi faccia miracoli, ma comunque aiuta a prendere una certa confidenza. Un maschio invece rischia di essere deprivato del suo mondo in maniera brusca e repentina. In meno di un anno può trovarsi tranquillamente in casa una moglie e un figlio. Questo vuol dire che due terzi del suo spazio non gli appartengono più. Una quotazione in borsa sarebbe meno invasiva e richiederebbe più tempo. Lo sgomento è comprensibile, anche perché una moglie te la scegli, un figlio no; ti arriva come arriva e non si può cambiare. Come con gli sconti di fine inverno.
Ma il prezzo che si paga in realtà è quello pieno: il bagno è occupato fin dal primo mattino; la moglie è occupata fino a notte fonda. Già: nei primi tre mesi di vita del cucciolo, a lui viene preclusa la via per farsi largo nel bossolo simbiotico madre-figlio; una diade più impenetrabile di un giubbotto antiproiettile. Lui diventa il terzo incomodo. Poi, tanto per rincarar la dose, viene privato di tre appuntamenti di calcetto al mese, di tre ore di sonno a notte, perfino di tre minuti d’intimità al giorno…. Finché a un certo punto qualcosa misteriosamente accade. Complice la parola, il sorriso, quella carica di vita tutta compressa in settanta centimetri, daddy inizia finalmente a comunicare di gusto con quello che fino a ieri considerava un essere dotato del cervello di un protozoo. Allora è finita: daddy viene catapultato letteralmente in un altro mondo, dove d’ora in avanti sarà attratto dal suo piccolo come dalla forza di gravità.
E non c’è più nulla da fare: lo abbiamo perso; catturato, rapito, neanche si fosse cacciato in fondo a un buco nero. Ma forse il bello è proprio questo: rendersi conto che non si può dare nulla per scontato. Così, la prossima volta che qualche futuro-papà un po’ perplesso sentirà dirsi di non abbattersi perché c’è un tempo per ogni cosa, forse ci crederà. Padri e madri si diventa. Un figlio impiega nove mesi a nascere. Non vogliamo dare almeno lo stesso tempo anche ai genitori?