Martina Giannone intervistata da Corriere.it, racconta la sua seconda vita dopo l’incidente, il coma e la lunghissima riabilitazione. La 27enne è consapevole di non essere una infermiera comune ed infatti, proprio per questo motivo ha scelto di lavorare nel reparto “Unità di risveglio”, per dare quello che ha ricevuto. Ogni giorno, tra lei ed i pazienti che escono dal tunnel del coma, si crea una alchimia particolare e unica. Ed infatti prima di lavorarci, in questo reparto Martina ci è passata come paziente. L’incidente è avvenuto quando aveva appena 17 anni, in automobile con dei coetanei, il compagno di liceo al suo fianco è morto sul colpo, altri due rimasero feriti. “Fui ricoverata in rianimazione a Palermo — racconta —. Dell’incidente e della rianimazione non ricordo nulla, buio totale. Raccontano che dopo 28 giorni davo segni di ripresa, così venni trasferita a Cefalù. E qui mi sono risvegliata vedendo per la prima volta le lacrime di mia madre”. Dal quel doloroso avvenimento sono ormai passati dieci anni e non sono stati dei più semplici, tra riabilitazione e risveglio.
La storia di Martina Giannone dopo 10 anni dal coma
“Al risveglio ero tracheotomizzata e con metà del corpo paralizzato”, racconta Martina Giannone al Corriere.it. Nonostante questo, non ha mai perso la voglia di vivere e lottare. Dopo il diploma è arrivata la laurea in scienze infermieristiche. Poi si è aggiudicata le selezioni per dei contratti a tempo determinato proprio nell’Unità Risveglio di Cefalù. “E dopo circa due anni di precariato a ottobre sono stata assunta a tempo indeterminato”. Questo traguardo verrà ricordato per sempre dal suo tatuaggio sul braccio con la scritta: “Tutto è possibile a chi crede”. “È diventata la frase della mia vita. Il faro che mi dice che non bisogna mai mollare”, confida. Ogni giorno questa infermiera speciale, indossa il suo camice ed accoglie pazienti, spesso anche giovanissimi “ed è straziante affrontare i genitori”. Martina si rende conto che il suo ruolo le impone una certa professionalità: “ma io vado sempre oltre le parole di circostanza. Molte famiglie inizialmente reagiscono con perplessità, poi trovano conforto nel sapere che la mia storia è la dimostrazione concreta che c’è sempre una speranza”.