Abbiamo da poco festeggiato l’8 marzo con i tradizionali riti. Analisi disarmanti sulla realtà sociale, grandi discorsi sull’inclusione, altrettanto grandi promesse di politiche in grado di aiutare la parità tra i sessi. Con due elementi che vengono tradizionalmente messi in secondo piano. Da una parte il fatto che il gender gap nel lavoro, nel salario, nelle possibilità di carriera, è molto forte soprattutto al Sud dove si registrano le più basse percentuali di partecipazione femminile al lavoro. Dall’altra parte un’osservazione che privilegia gli elementi quantitativi lasciando in secondo piano la dimensione qualitativa della presenza femminile. Si tende a dare per scontato che l’obiettivo deve essere quello della parità, un obiettivo certamente valido, ma che va messo in relazione anche con una diversità determinata dalla natura prima che dalla forzatura delle ideologie. In pratica come se l’essere sposa e madre costituisca un handicap da superare più che un’esperienza da valorizzare.
Non è un caso se l’Italia associ a un tasso di natalità tra i più bassi d’Europa (e in continua flessione) una delle altrettanto basse percentuali di occupazione femminile. La carenza di incentivi fiscali e normativi per le famiglie si intreccia con la mancanza di servizi reali come gli asili nido e adeguati supporti di lungo periodo.
Il tasso di occupazione femminile è infatti il più basso dell’Unione europea, 14 punti percentuali sotto la media. Per le donne di età compresa tra i 20 e i 64 anni è infatti pari al 55%, mentre il tasso di occupazione medio Ue è del 69,3%. Le donne italiane che lavorano sono 9,5 milioni, a fronte di circa 13 milioni di occupati uomini.
C’è anche un retaggio culturale che viene da lontano, quello che potremmo chiamare il patriarcato finanziario. Spetta agli uomini la gestione del denaro così come le scelte finanziarie della famiglia riconoscendo alle donne come “normalità” una posizione di sudditanza, magari confortevole limitando impegni e responsabilità.
È una realtà che viene esaminata con efficacia e profondità nel libro di Annalisa Monfreda “Quali soldi fanno la felicità” (Ed. Feltrinelli, pagg. 190, € 16). L’autrice, dopo aver diretto le più importanti riviste femminili, ha messo a frutto la propria esperienza fondando con altri soci una piattaforma, “Rame”, per “rompere il tabù culturale attorno ai soldi e democratizzare l’accesso ai servizi finanziari”. Il libro è così un viaggio ricco di testimonianze, storie di donne, aneddoti che vanno al di là dell’analisi sociale per diventare elementi di impegno politico oltre che consigli utili per affrontare una realtà spesso distante, se non ostile.
Una prospettiva particolare, come emerge fin dal titolo, è che si supera, pur senza rinnegarla, la dimensione dell’analisi economico-finanziaria per entrare nel mondo dei sentimenti, dei valori umani, della felicità. I soldi continuano a essere un valore, un termometro della competenza e della partecipazione al lavoro, ma possono restare in secondo piano per ogni persona, e quindi anche per ogni donna, che voglia essere protagonista del proprio vivere.
Il richiamo di Monfreda è che l’economia non è una scienza, da lasciare agli esperti come la fisica o la medicina. L’economia è il nostro vivere quotidiano in cui i soldi non sono un fine, ma uno strumento e in cui ogni donna può innestare i propri valori e le proprie specificità. Anche perché, pur con tutti i suoi difetti, il mercato si muove con le scelte libere e responsabili di milioni di persone.
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