Il dibattito sulla disparità salariale tra uomini e donne continua a suscitare interesse. Un aspetto cruciale del dibattito è stato recentemente messo in evidenza dall’Ocse, che ha denunciato una forte disparità salariale in Italia.
Il rapporto “Education at a Glance 2024” ha rivelato che in Italia le giovani donne laureate percepiscono in media uno stipendio pari al 58% in meno rispetto ai loro colleghi uomini. Questo significa che, in molti casi, lo stipendio femminile è quasi la metà di quello maschile, nonostante il livello di istruzione sia spesso comparabile o addirittura superiore.
Tuttavia, questa notizia non dovrebbe sorprendere. Da tempo si sente ripetere che anche nelle economie più avanzate le donne tendono a guadagnare meno degli uomini pur svolgendo le stesse mansioni e ricoprendo posizioni di pari responsabilità. Questo fenomeno, noto come gender pay gap, suscita un interrogativo cruciale: in quali contesti professionali persiste una tale disparità? È davvero una questione di discriminazione nel mondo del lavoro?
In Italia, il settore pubblico è uno degli ambiti in cui le regole garantiscono l’uguaglianza salariale. Infatti, la retribuzione è standardizzata in base al ruolo e all’anzianità di servizio, senza che vi siano differenze di genere nei contratti. Gli impiegati, i funzionari e i dirigenti statali percepiscono lo stesso stipendio, che siano essi uomini o donne, purché abbiano lo stesso livello di qualifica e anzianità. Lo stesso principio si applica nelle grandi aziende private, dove i Contratti collettivi nazionali del lavoro (Ccnl) prevedono salari uguali a parità di ruolo e competenze.
Forse, il fenomeno si manifesta in settori meno regolamentati, come le piccole e medie imprese, dove il potere contrattuale dei singoli lavoratori può influire sui livelli stipendiali. In questi casi, il salario può dipendere da trattative individuali, e qui potrebbero sorgere differenze legate a dinamiche di negoziazione o stereotipi di genere che penalizzano le donne. Le donne, infatti, potrebbero essere svantaggiate nei negoziati salariali per una serie di ragioni, tra cui una storica sottovalutazione del lavoro femminile e la pressione sociale che le vede spesso impegnate in ruoli di cura familiare. Questi fattori potrebbero tradursi in una maggiore disponibilità da parte delle donne ad accettare salari inferiori o incarichi meno remunerativi, in cambio di maggiore flessibilità lavorativa.
Un elemento chiave che contribuisce a spiegare la disparità rivelata dai dati Ocse è la prevalenza del lavoro part-time tra le donne. In Italia, il doppio delle donne rispetto agli uomini sceglie o è costretta a lavorare con orario ridotto, soprattutto per conciliare le responsabilità lavorative con quelle familiari. Questo fenomeno incide pesantemente sulla retribuzione complessiva.
Molte donne scelgono il part-time per occuparsi dei figli o dei familiari anziani, e questa riduzione di ore lavorative si traduce inevitabilmente in un reddito inferiore. Questo trend è particolarmente evidente anche nel settore pubblico, dove, pur essendoci una parità salariale formale, la scelta di lavorare part-time è molto più comune tra le donne. Negli uffici ministeriali e nelle amministrazioni pubbliche, ad esempio, le donne che optano per il part-time sono spesso più numerose degli uomini, contribuendo così ad accentuare la disparità salariale apparente. Questo dimostra che la riduzione del salario è spesso legata a scelte personali o familiari, piuttosto che a una discriminazione strutturale nel mondo del lavoro.
Emerge quindi una dimensione cruciale della questione: la disparità salariale non è solo una questione di stipendi. Dietro il fenomeno del gender pay gap si cela un intreccio complesso di dinamiche sociali e culturali. La differenza salariale non può essere spiegata soltanto con la discriminazione diretta, anche se questa esiste in alcune circostanze. Piuttosto, è il risultato di una società in cui le donne si trovano spesso costrette a scegliere tra carriera e famiglia. La difficoltà di conciliare lavoro e vita privata penalizza fortemente le donne, le quali sono ancora oggi viste come principali responsabili della cura domestica.
In una tale situazione, anche se la retribuzione a parità di ruolo è formalmente uguale, la differente partecipazione delle donne al mercato del lavoro contribuisce a creare diseguaglianze salariali su larga scala. Le donne tendono a interrompere la carriera più frequentemente rispetto agli uomini, per maternità o per occuparsi dei familiari, e queste interruzioni riducono le possibilità di avanzamento professionale e di conseguenza la crescita salariale.
Affrontare il gender pay gap richiede quindi interventi su più livelli. Non basta garantire uguali stipendi a parità di mansione, ma è necessario implementare politiche di welfare che facilitino la condivisione delle responsabilità familiari tra uomini e donne. Promuovere un accesso più equo alle opportunità di carriera per le donne, fornendo supporti come il congedo parentale condiviso e asili nido aziendali, è essenziale per permettere a tutti di lavorare senza dover sacrificare la propria vita privata o il proprio percorso professionale.
Per affrontare davvero il gender pay gap, non basta quindi intervenire solo sul piano lavorativo, ma è necessario promuovere politiche di welfare che sostengano le famiglie, favoriscano la condivisione delle responsabilità domestiche tra uomini e donne, e permettano a tutti di conciliare lavoro e vita privata senza dover rinunciare alla propria carriera.
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