La colpevole mancanza di politiche a favore dell’occupazione di coloro che rappresentano ben il 53% delle cittadine italiane è una cantilena insopportabile che ormai accompagna le solite esternazioni senza coerenza nell’agire: “Il tasso occupazionale femminile da noi è al 51,2%. Se arrivasse al 60%, il Pil crescerebbe del 7%”.



Alcuni esempi deprimenti. Il rafforzamento dell’inattività femminile conseguente all’estensione della Naspi a genitori con figli da 0 a 3 anni che presentano dimissioni volontarie ai sensi dell’art 55 del TU n. 151/2000. Addirittura quest’anno rispetto all’anno scorso sono aumentate del 17,1% e il dramma riguarda soprattutto le donne come sempre con il 72,8% delle lavoratrici, cioè 44mila dimissioni convalidate ed è collegato assolutamente alla tanta inconciliabilità tra lavoro e famiglia.



La questione della parità salariale che a tutt’oggi non esiste, poiché Il divario retributivo di genere è la differenza tra i compensi orari lordi di uomini e donne, e ci si basa sugli stipendi versati direttamente ai dipendenti prima delle detrazioni fiscali e dei contributi previdenziali. Il rafforzamento del differenziale retributivo è conseguente al part-time, alle scelte professionali riferite al carico familiare, a più donne nei settori a bassa retribuzione, a meno dirigenti donne e meno pagate e soprattutto alla conversione del premio di produttività in quota welfare aziendale.



Al di là di tante aziende che si autodefiniscono family friendly dobbiamo ricordare che il premio di produttività rappresenta la quota aggiuntiva alla retribuzione che viene riconosciuta ai/alle dipendenti al raggiungimento di incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza e innovazione. Nell’ambito della struttura della retribuzione è la parte variabile del salario, solitamente oggetto di contrattazione di secondo livello: dunque, meno lavori e sei assente per motivi di congedo, meno prendi in busta paga.

Contestualmente alla promessa di intervenire con il Pnrr siamo in cima a una graduatoria fragilissima sulle materie scientifiche in ambito scolastico. La matematica lascia indietro le ragazze, e l’ultima indagine di Ocse-Pisa elegge il nostro Paese quello con il maggior divario di genere nell’apprendimento della materia. Il Programma per la valutazione internazionale dello studente (Programme for international student assessment, Pisa) dal 2000 rileva le competenze di studenti e studentesse quindicenni in tre ambiti principali: matematica, lettura e scienze, ritenute “fondamentali per partecipare pienamente alla vita sociale ed economica” e ci dimostra una verità deludente.  Se il livello generale di preparazione in matematica è sceso in tutti i Paesi Ocse, registrando un calo di 16 punti, il dato più significativo sul nostro Paese è quello relativo alle differenze di genere nei punteggi registrati in questa disciplina, dove il distacco fra maschi e femmine favorisce i primi di ben 21 punti, risultando di molto sopra la media dei Paesi Ocse, in cui è di 9 punti. Anche la percentuale di chi ha competenze elevate – che permettono di svolgere compiti più complessi e astratti, e che risulta quindi top performer – vede le ragazze italiane penalizzate rispetto ai ragazzi nella matematica (4% contro 10%).

Il 6 novembre il dipartimento di pari opportunità ha dato il via alla concessione di contributi a favore della certificazione di genere delle piccole e medie aziende con 10 milioni a mio parere sprecati perché si arricchiscono solo gli organismi di certificazione e non si aiutano veramente le donne, un banale strumento alle aziende (una sorta di bollino rosa già malamente sperimentato prima nel 2006 al ministero del Lavoro e poi nel 2014 al dipartimento pari opportunità) per avere dei vantaggi con la legge n. 162/2021 che dal 2022 per 50 milioni di euro annui prevede un esonero dal versamento dei contributi previdenziali e un riconoscimento di un punteggio premiale per la valutazione da parte dell’erogazione di fondi europei alle aziende. Per aiutare veramente l’occupabilità femminile è necessario applicare all’interno delle aziende il sistema della bilateralità con Fondi che riconoscono la flessibilità lavorativa e vengono usati sia da lavoratrici e lavoratori che necessitano di maggiore flessibilità per coniugare impegni familiari e lavoro e non dando incentivi contributivi che non risolvono sul medio periodo la presenza delle donne sul luogo di lavoro.

Il sistema bilaterale è oggetto di accordi confederali peraltro già sottoscritti e che si avvalgono di fondi di sussidiarietà tra lavoratori e datori di lavoro e che ora funzionano perfettamente sul versante della formazione: è opportuno spostare un po’ di risorse su questa voce e dunque affrontare così culturalmente e contrattualmente la questione flessibilità e organizzazione aziendale.

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