RIFORMA PENSIONI E FESTA DELLA DONNA. Ricordare l’8 marzo parlando di pensioni al femminile finisce inevitabilmente per scoperchiare un’ulteriore condizione di diseguaglianza di genere. Si tratta però di un aspetto collaterale. Una conseguenza, un derivato di una situazione di diseguaglianza ben più ampia che riguarda la presenza della donna nella famiglia, nel lavoro, nella società. Non esiste, infatti, una discriminazione che riguardi i diritti e le regole. In Italia è esistito anche questa realtà. Fino ai primi anni ’60 le stesse tabelle salariali erano differenti per sesso ed età. Il lavoro della donna faceva parte, nel migliore dei casi, di un periodo particolare della vita che precedeva il matrimonio. Nel caso in cui proseguisse anche dopo questo cambiamento di status, lo stipendio della moglie serviva per integrare il reddito famigliare. Secondo questa logica, si verificava il paradosso per cui la lavoratrice veniva favorita nell’età del pensionamento, perché anche il trattamento previdenziale veniva sempre ricondotto all’esigenza di integrare il reddito del marito, il quale era tenuto a lavorare più a lungo e con il compito di provvedere alla famiglia.
Nel settore privato, fino al 1992 l’età pensionabile delle lavoratrici era stabilita a 55 anni (a 60 quella degli uomini). Nel pubblico impiego, per aggirare una norma uniforme per ambedue i generi (65 anni di età per la quiescenza) apparentemente più severa, si erano aperti canali di pensionamento anticipati sulla base dell’anzianità di servizio a prescindere dall’età: 20 anni per gli statali e 25 per i dipendenti degli enti locali. Gli esodi anticipati erano addirittura incentivati sul piano economico, nel senso che i rendimenti non salivano in maniera uniforme col trascorrere dell’anzianità di servizio, ma si impennavano negli anni in cui maturava il diritto al pensionamento anticipato allo scopo di renderne conveniente l’utilizzo. Per di più, per molti anni prima che la norma venisse modificata, l’indennità integrativa speciale ovvero la perequazione automatica delle pensioni, erogata a parte, veniva riconosciuta per intero come se il lavoratore fosse rimasto in servizio fino al momento della quiescenza.
All’inizio degli anni ’70 venne poi varata quella famigerata norma che consentiva alle pubblici dipendenti sposate e con figli di andare in pensione con 15 anni di versamenti (ossia a 14 anni, 6 mesi e un giorno) a qualunque età. Sono regole che in seguito sono state superate. Ma il sistema pensionistico ha la memoria lunga, inanella per decenni diverse generazioni. Tanto che il IX Rapporto di Itinerari previdenziali si è preso il disturbo e ha acquisito il merito di monitorare il fenomeno della baby pensioni, scoprendo un’ampia categoria di pensionati/e in aeternum.
Come sempre, anche in questo caso è utile fare riferimento ai rapporti di Itinerari previdenziali se si vuole avere un’idea precisa di questo deteriore fenomeno (sempre biasimato e rinfacciato ogni volta qualcuno poneva la questione dell’età pensionabile). All’inizio del 2021 erano in pagamento 423.009 pensioni previdenziali per il settore privato e 53.270 per il settore pubblico con durata di ben 41 e più anni. In dettaglio, nel settore privato beneficiavano di queste pensioni di durata ultra-quarantennale 343.064 donne (81,1%) e 79.945 uomini (18,9%), andati in pensione nel lontano 1980 o addirittura ancor prima. Nell’anno precedente erano 502.327. Si era registrato pertanto decremento del 16% rispetto al 2020, pari a 79.318 prestazioni eliminate, molte delle quali purtroppo a causa di Covid-19; per i dipendenti pubblici, delle 53.274 pensioni (erano 59.536 nel 2020) 36.372 erano appannaggio delle donne (68,3%) e 16.902 degli uomini (31,7%).
Ma ciò che lascia a bocca aperta sono i dati anagrafici. Questi pensionati sono andati in quiescenza con età medie di 39,7 anni per gli uomini e 42,3 per le donne per quanto riguarda il settore privato e 39,3 per gli uomini e 42,1 per le donne nel settore pubblico; età molto basse anche a causa di baby pensioni, prepensionamenti e pensioni di invalidità che, a quel tempo, venivano usate come oggi si utilizzano Ape sociale, precoci, Opzione Donna e gravosi, il che, sottolinea il IX Rapporto, dovrebbe far molto riflettere politica e sindacati cimentandosi con il seguente raffronto: le età medie possedute dai lavoratori privati andati in pensione nel 2020 per anzianità, vecchiaia, prepensionamenti, invalidità e superstiti sono state nel medesimo ordine, rispettivamente 61,9; 67,4; 62,1; 54,8; 77,4 per i maschi, mentre per le donne le età medie per ciascuna categoria sono 61,3; 67,3; 61,8; 53,5; 74,3 (dati in anni e decimi di anno). Età medie ancora particolarmente basse soprattutto per anzianità, prepensionamenti e invalidità previdenziale, con potenziali durate superiori ai 25 anni.
La durata delle pensioni erogate dal 1980 o prima nel settore privato e ancora oggi vigenti risulta essere in media di quasi 46 anni (età media attuale meno età media alla decorrenza) e nel settore pubblico di quasi 44 anni, senza tener conto, ovviamente, di quelli che sono andati in pensione in età più mature ma che sono deceduti.
Fortunatamente questa pagina è chiusa. Andrebbe comunque fatto notare che in tutti gli ultimi decenni quando si imponevano contributi di solidarietà sulle pensioni più elevate o si bloccava per i trattamenti medio-alti la perequazione automatica anche per lunghi periodi, non è mai venuto in mente a nessuno di chiedere un contributo a questi pensionati storici (nel senso che hanno vissuto in pensione una parte preponderante dell’esistenza).
Passando oltre i sentimenti di invidia sociale che vengono scatenati dalle pensioni, i numeri, le tipologie, l’importo medio e la spesa complessiva delle pensioni aprono una finestra sulla realtà del lavoro in Italia. Sono attualmente in pagamento 5.752.933 prestazioni IVS, dei settori privato e pubblico, che hanno una durata di 20 anni e più, pari al 34,1% del totale dei circa 16,846 milioni pensioni IVS. Per il complesso dei settori, le donne, più longeve, costituiscono – certifica il IX Rapporto – il 79,7% del totale di prestazioni IVS in pagamento con durate da 40 e più anni e con il 64,3% sul totale per genere di quelle ancora vigenti con durata di 25 e più anni; si tratta prevalentemente di pensioni di invalidità, superstiti e vecchiaia; la pensione femminile ha in media importi più bassi rispetto a quella dei maschi, ma ha una durata molto maggiore con spesa spesso superiore a quella delle pensioni maschili.
L’analisi per le categorie evidenzia che al 1° gennaio 2021 nel settore privato sono ancora in essere 210.699 pensioni dovute ai prepensionamenti avvenuti anche con 10 anni di anticipo rispetto ai requisiti generali tempo per tempo vigenti; ne è stato fatto un uso “intensivo” fino al 2002 (i picchi si sono verificati tra il 1984 e 1992, anno con il numero più elevato), poi il ricorso all’istituto del prepensionamento è sceso nel tempo, per poi riprendere al ritmo di circa un migliaio l’anno dal 2009.
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