Sul film del momento, Don’t look up con Leonardo di Caprio e Meryl Streep, le interpretazioni si sono divise sostanzialmente su tre filoni: cioè se il film parla del dramma Covid, del dramma surriscaldamento o del dramma mass-media. Su questa triplice divisione poi ci sono i fan che fanno il tifo per il film, per essere un film-denuncia e quelli che gli danno del talebano. Tutto qui?
Davvero chi vede questo film ci vede solo e soltanto la solita denuncia della fine prossima annunciata? Come direbbe Emanuela Fanelli: “Ma che “davero-davero”??”
Ma che davvero non vediamo che la cometa maledetta che sta per distruggere la terra è un modo di descrivere il mondo, il nostro mondo mentale, il nostro mondo intimo? No, non parlo del mondo dei massmedia che apparendo preminenti nel film, vengono additati come uno degli obiettivi negativi del film. No, perché non sono loro che contano: i massmedia, coi talk-show, gli influencer, gli anchor-men, sono partecipi del disastro globale ma non sono il disastro. Il disastro è dentro di noi da almeno cinque generazioni, come hanno denunciato tutte ma proprio tutte le menti libere ed elevate da cento anni in qua. Da Heidegger a Marcuse, da Arendt ad Anders.
Noi cresciamo alimentati a paure, respiriamo paure, ereditiamo paure. E al tempo stesso censuriamo le paure con un’adolescenza protratta, facendo finta di non invecchiare, cancellando le malattie dall’orizzonte perché semplicemente non sono previste, non ci è dato pensare che la nostra vita sia o debba essere meno che perfetta. Proprio come fanno tutti i personaggi di questo film: non sono autorizzati a pensare che qualcosa meno che perfetto succederà. Devono sorridere in una felicità artefatta.
Questa si chiama schizofrenia: avere in cuore una cosa e vivere guardando un’altra. Ed entrambe le cose sono inautentiche, direbbe Heidegger. Viviamo con delle paure instillate da un potere che vive delle nostre paure e reagiamo esattamente come vuole quel potere: consumando. Herbert Marcuse lo chiamava “consumismo compulsivo” dell’uomo ad una sola dimensione, quella del consumo, per il quale anche la liberazione sessuale da elemento positivo si è tramutato in mezzo di distrazione di massa. Jaques Lacan lo descriveva nel “discorso del capitalista” e Martin Heidegger lo chiamava “chiacchiericcio”, nato dalla scomparsa del vero “io”, del vero “esserci”, cioè dell’uomo; e questo era sufficiente per metterci sopra una lapide culturale da una tonnellata.
Ma noi ci viviamo dentro e sorridiamo senza accorgercene, figli di quella che Pier Paolo Pasolini chiamava “generazione sfortunata”, che serviva il mondo illudendosi di “portare avanti la lotta” contro di esso. E oggi, figli di quella generazione che pensava di cambiare il mondo fumando marijuana e portando i capelli lunghi, sperando in una pace utopica e magari producendo opere di valore come tanto buon Rock degli anni 70, assistiamo tristi alla nostra involuzione, nell’orrida certezza che “libertà” è solo e soltanto scegliere tra una Ford o una Opel, tra una Honda e una Kawasaki, tra Nikon e Canon.
Temiamo la meteorite e facciamo bene, perché l’abbiamo chiamata, evocata, preconizzata; ma la vera meteorite è già dentro gli atri del nostro cuore, sta risalendo per l’aorta e invadendo fino ai più remoti capillari: ha già devastato il devastabile. La meteora è la nostra vita, ridotta alle dimensioni di una pallina Zigulì e rotolata in un cantuccio, ormai indifferente alle multivariate possibilità di tutto il fattibile, sorda all’evidenza del possibile, arida, e ingozzata di commercial e banners… che noi chiamiamo “mondo”. Ma se questo è il mondo, si perde la capacità di fare società, che resta appannaggio di due Moloch: il mercato e la tecnologia o, come dice Umberto Galimberti, della moda e della pubblicità.
Quindi il meteorite di Don’t Look Up è l’occasione per guardare al meteorite che ci ha colpiti, servi del proprio ruolo, schiavi della routine, piegati ai protocolli che diventano norma, e di norme che non sono più leggi, cioè concetti morali, ma semplicemente manuali per l’uso: non si fa più il bene perché “è giusto farlo”, ma solo per paura di essere sanzionati (se questo rischio non c’è, non c’è più motivo di “far finta di essere onesti”).
Eppure c’è un lontano barlume che oscilla nella trama del film, che non si può chiamare speranza, ma ha il sapore di una promessa certo un po’ sbiadita. Già, la catastrofe ha la sua nemesi in chi sa che il dramma sta avvenendo, nel da-sein di Heidegger: nel saperlo. Ha la sua nemesi in chi è cosciente di un sistema infettato da un Covid morale che non sappiamo vincere, che non sappiamo scansare, che ci sovrasta, in mano alle mega-companies senza volto, anzi cui danno volto le facce suadenti che fanno il bello e il cattivo tempo sui nostri schermi. Essere coscienti di esser-ci, di avere un io da difendere e amare, di sapere che viviamo un mistero e non la banalità “che ti vendono in televisione”, come diceva Quino, è già una vittoria morale.
Quindi guardiamo Don’t Look Up, che non descrive un domani distopico, ma quello che già ci è successo.
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