Inaspettatamente, Don’t look up è stato il film più discusso delle feste almeno stando alle discussioni tra cinefili e le bolle dei social network, ma a ben guardare forse il risultato non era così inaspettato, anzi forse era proprio il fine dell’opera: un film catastrofico che è anche una parodia del genere e una satira del mondo politico e culturale contemporaneo, prodotta e distribuita da Netflix potendo contare su un cast di attori da sogno e un regista come Adam McKay che sulla satira e il demenziale ha costruito buona parte della sua carriera.



Don’t look up mette insieme la prima parte della sua filmografia, quella espressamente demenziale, e la seconda più vicina a una satira propriamente detta, con più di un riferimento all’attualità (La grande scommessa, Vice): racconta di due ricercatori (Leonardo DiCaprio e Jennifer Lawrence) che scoprono un gigantesco meteorite che sta dirigendosi sulla Terra e nel giro di sei mesi distruggerà il pianeta. Cercano di avvisare le autorità, ma tra cautele, interessi politici ed economici nessuno sa davvero cosa vuole fare e come farlo.



Scritta dallo stesso regista con David Sirota, la frenetica commedia ha come bersaglio delle proprie frecciate l’idiozia su cui si basa l’intero sistema americano, a partire dalla presidente degli Stati Uniti (Meryl Streep) e della sua corte dei miracoli capitanata dal figlio Jonah Hill, fino alla comunicazione, ai militari, agli industriali dell’hi-tech che pensano a come sfruttare il meteorite e intanto preparano il piano di fuga. McKay non ha intenzione di salvare nessuno, nemmeno i due scienziati protagonisti, che finiscono vittime dell’isteria che loro stessi hanno creato o complici del meccanismo mediatico che da un lato li corteggia (letteralmente) e dall’altro li sfrutta.



Per struttura, temi e in parte anche stile di racconto, Don’t look up guarda al Saturday Night Live, da cui proviene il regista, e soprattutto ai cartoon provocatori che hanno cambiato l’umorismo tv, come I Simpson (c’è un interessante articolo su Esquire sulle somiglianze tra film e serie), I Griffin e South Park, mentre sul fronte filmico lo zibaldone meta-linguistico spazia dalla tv ai social network per arrivare a un finale che sembra fare la parodia di film come Armageddon o Deep Impact e del loro stile tronfio o patetico.

Proprio quel finale – che ovviamente non riveleremo – però fa sorgere più di un dubbio: che il giudizio finale sia di condanna generalizzata o di assoluzione (cosa che sotto sotto pare, pur con qualche distinguo), il limite della satira di McKay è che nel colpire tutti finisce per lasciare illeso proprio lo spettatore, chiuso in un meccanismo in cui tutti paiono peggiori di lui, che lo porta ad auto-assolversi e a ridere di trovate mai davvero caustiche, pensate per intrattenere prima che per graffiare, spuntate da obiettivi davvero facili come i politici idioti o i social network che generano mostri, mentre le cose più interessanti, come il racconto dei meccanismi di politica ed economia della crisi, vengono abbozzate con pochi cenni.

Al di là degli evidenti cali di ritmo e tensione comica, ché far ridere per due ore e venti è un’impresa titanica, il vero limite del film di McKay è il suo qualunquismo assolutorio, la facilità di fondo che la sceneggiatura iper-frammentata camuffa da astuzia, l’incapacità di mescolare la risata e il pensiero facendo in modo che le due cose si potenzino, come negli esempi citati sopra, e non si danneggino, come avviene qui. È un film piacevole, con buone idee, ma che sembra concepito per far pensare allo spettatore che gli sciocchi siano sempre gli altri: citando la scrittrice Ilaria Mainardi, “Se La grande scommessa ci dava delle responsabilità, Don’t look up ci fornisce un alibi”. E l’alibi è proprio l’opposto di un testo satirico.

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