Conclusesi le esequie di Benedetto XVI, poteva essere il momento di dedicarsi con serenità a una riflessione contemporaneamente più vera e sincera e più articolata. Non tutti, bisogna ammettere, hanno colto l’occasione, contribuendo ad alimentare all’opposto una descrizione macchiettistica dell’essere Chiesa, oggi: un derby, neanche troppo ben giocato, tra reazionari e rivoluzionari.
Le due categorie, che già dicono poco alla storia della fede, che di solito ne usa altre, sono in realtà molto più composite delle apparenze e delle chiacchiere. Tanti sono i temi posti alla riflessione collettiva e specialistica (che si tratti di evangelizzazione o di amministrazione vaticana, di condizione del clero o di valenza politica delle religioni, di secolarizzazione o di bioetica) e non esistono pettorine in grado di dividere il mondo intero in due sole squadre. Non si capisce, invero, secondo quali criteri si debba appartenere all’una o all’altra.
Ci pare perciò che la circostanza sia utile piuttosto ad altro tipo di ragionamento. Ne proponiamo qui tre, certi che non esauriscano il catalogo né dei pensieri né dei gesti concreti.
In primo luogo, le esequie per Benedetto XVI hanno avuto un seguito popolare che pochi si sarebbero aspettati. Si immaginava che dopo anni dalla rinuncia pontificia, e per di più in riferimento a un uomo di Chiesa di risonanza comunicativa non debordante, il cordoglio collettivo sarebbe stato ridotto, anonimo, poco avvertito e caloroso. Invece, folle e file. Persino numeri, che non sono quelli di Giovanni Paolo II, ma che sono comunque tangibili, forti, larghi. Erano altri tempi, un’altra percezione di massa del pontificato e – aggiungiamo senza malizia – un’altra Roma, nella sua riconoscibilità internazionale, e un’altra Europa, nella sua riconducibilità a luoghi, simboli e persone della storia cristiana. Confronti inutili, opportuna piuttosto la sottolineatura di un momento sincero e devoto di raccoglimento, da alcuni certo inatteso.
In secondo luogo, molti sono rimasti colpiti dal quantitativo di foto scattate e circolate, dai cellulari issati come bandiere (o barriere, fate voi) della mente durante i momenti di preghiera e celebrazione. Quasi una contraddizione rispetto al teologo e papa che aveva fatto del passo dimesso, dell’approccio austero, della serietà argomentativa, volente o nolente una sua cifra distintiva. Senonché l’emozione comune era forte e tanti avranno voluto portar dietro, nella memoria dei dati digitali, oltre che in quella personale, frammenti di un momento che eccede l’ordinario (come in parte testimonia l’uso scherzoso del brocardo avverbiale “a ogni morte di Papa”: irriverenza linguistica che esprime a rude pelle carattere di eccezionalità). In fondo, comportamentisti, sociologi e psicologi ci spiegano qualcosa, se riusciamo a non prenderla come dogma e panacea. Abbiamo instaurato con l’immagine riprodotta che ci riguarda un rapporto simile a quello che la civiltà cristiana medievale aveva, certo a un superiore livello di interiorizzazione, con la reliquia: quel selfie è il pezzo ostensivo dell’esperienza, ancora una volta, memorabile. Anche se non ci accorgiamo che è proprio la serialità a togliere il sacro dalla memoria. Il desiderio spontaneo di accumulare riserve di significato pronte per essere rievocate, richiamate… Oggi, immancabilmente, rivisualizzate.
Infine, sembra doveroso fare una riflessione in termini di diritto, e non solo di diritto della Chiesa, ma anche nei suoi rapporti col “secolo” e con le entità politiche degli Stati e delle opinioni pubbliche. Col trapasso della sua esistenza terrena, Joseph Ratzinger, il teologo sistematico, bruscamente taglia via la lunga e bislacca discussione sui presunti due papi regnanti, sulla querelle del tandem, sulla scissione del pontificato in due corpi e persone. Viviamo tempi in cui ciò che dieci anni addietro sembrava inedito avrà una probabilmente maggiore frequenza: un pontefice rinuncia attraverso una propria libera e consapevole, autentica, dichiarazione, senza che essa debba essere da alcuno sottoposta a giudizio (processuale o materiale che sia). A causa di inabilità comunque definite e impossibilità a ricoprire l’alto e gravoso ministero. E tuttavia non sembra nemmeno il caso, passi l’immagine, di un avvicendamento aziendalistico, di un pensionamento demandato ai registri della contabilità. Un pontefice che rinuncia, stremato o in ogni caso impossibilitato a proseguire nel cammino del governo della Chiesa, non è un amministratore delegato che ottiene una buonuscita o il capitano che gioca davanti al pubblico amico la sua ultima partita. È condizione non traumatica, non antigiuridica e nemmeno normotipica di una fede che esiste perché riguarda umani nel loro tempo, che credono a un disegno e una possibilità di eterna salvezza. Regno e tempo che si toccano, attraverso la porzione semantica del diritto e della giustizia.
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