Nell’Italia dei primi anni novanta, quando assieme alla potente Democrazia Cristiana l’intero sistema della prima repubblica era oramai precipitato in un naufragio senza possibilità di recupero, Silvio Berlusconi è entrato sulla scena elettorale, rappresentando una svolta radicale non solo nel modo di fare politica, quanto soprattutto nella volontà di ricostruire un mondo del quale si riteneva di essere l’espressione e, a buon diritto, lo è certamente stato.
Al di là delle sue qualità imprenditoriali e della sua sensibilità politica, certamente il successo immediato della sua formazione, interamente costruita intorno alla sua persona ed alla sua storia imprenditoriale, è stato direttamente proporzionale al vuoto lasciato dall’intero sistema politico che lo aveva preceduto.
Ma c’è stato anche dell’altro ed è su questo secondo aspetto che vale la pena riflettere.
Berlusconi è entrato in sintonia con un’Italia che, cercando di venire a patti da vent’anni con una crisi sempre meno controllabile, aveva visto evaporare qualsiasi possibilità di recuperare lo sviluppo degli anni sessanta. La paralisi economica si era accompagnata ad una delusione che era stata culturale prima ancora che politica. Con Tangentopoli era venuta meno non solo una classe dirigente, ma anche la stessa possibilità che la politica potesse essere realmente l’artefice di un recupero possibile, capace di restituire all’Italia le sue potenzialità reali.
Silvio Berlusconi non ha semplicemente occupato un’area sociale rimasta senza rappresentanti, ma ha anche e soprattutto ereditato un’Italia oramai senza progetto. Non era venuta meno solo la Democrazia Cristiana ed il pentapartito; in realtà era l’intero universo della politica ad avere perso la sua credibilità. In questo senso la collocazione politica di Berlusconi è stata accompagnata e sostenuta anche da una collocazione culturale. Berlusconi ha infatti anche e soprattutto provveduto a ricostruire quel clima di fiducia morale e di ottimismo diffuso che avevano alimentato la rappresentazione condivisa che l’Italia si era fatta di sé stessa, dalla metà degli anni cinquanta fino agli anni sessanta.
Instaurando una cesura netta con l’ondata di contestazione che ha caratterizzato gli anni settanta, Berlusconi riannoda per intero le dimensioni espressive del periodo immediatamente precedente all’ondata protestataria, ripresentandone toni e entusiasmi, quando non addirittura l’estetica e gli stili di vita. Ciò gli varrà l’opposizione illimitata, fino al vero e proprio ostracismo, di quell’intera fascia generazionale che, essendosi volontariamente iscritta nella cultura della protesta della fine degli anni sessanta, aveva ereditato per intero da quest’ultima principi e modelli di comportamento.
In questo senso l’antiberlusconismo è stato molto di più di un’opposizione politica. Contro Silvio Berlusconi si è animata ed ha preso vita un’intera cultura diffusa che si riconosceva per intero nei canoni politici, ma anche comunicativi ed estetici degli anni della protesta, che Berlusconi ha consapevolmente messo ai margini e volutamente ignorato.
Ciò spiega anche, e probabilmente per intero, il successo che Silvio Berlusconi ha guadagnato sul campo, scegliendo di riannodare con l’Italia quella serie di valori e principi di vita che la contestazione aveva pesantemente criticato. Ricostruendo coscientemente proprio l’Italia televisiva e cinematografica che era venuta meno negli anni settanta e ottanta, corrosa dalla critica e snobbata dalle nuove élite culturali, Silvio Berlusconi non è stato solamente un politico che è transitato dal settore immobiliare a quello televisivo, investendo cifre enormi nel settore della comunicazione. In realtà egli è stato anche e soprattutto l’uomo della televisione e delle reti televisive. Reti che non mancheranno di riprodurre quella cultura dell’intrattenimento, volutamente leggera e distesa, interamente fondata su un’esistenza recuperata ad un ostentato ottimismo che diventa slogan di partito, promessa di benessere.
Non si può capire il consenso che ha avvolto Berlusconi (almeno fino a quando non sono cresciute accanto a lui le vitalità di una cultura di destra e di una di centrodestra territorialmente radicata), se non si comprende questa sua capacità di recuperare la possibilità di una vita riconciliata con lo sviluppo e la crescita, intesi come criteri politici e con l’ottimismo che questo sviluppo necessariamente comporta.
Ciò permette anche di comprendere la particolare forma personale che il partito da lui fondato, Forza Italia, ha finito con l’assumere. Questa forma infatti non si riassume affatto in un culto della personalità. Al di là delle doti comunicative, Silvio Berlusconi non si è mai presentato come l’uomo della provvidenza, né come un modello di vita. Al contrario di qualsiasi modello carismatico, Berlusconi ha soprattutto rappresentato un mondo prima di rappresentare sé stesso. E si tratta del mondo dell’impresa che edifica, producendo ricchezza a partire dalle qualità professionali di chi lavora e si impegna. Su queste basi, a suo avviso, era possibile e concretamente realizzabile restituire l’Italia alla storia di crescita e di sviluppo che comunque l’aveva caratterizzata.
Ed è su questa rappresentazione di un recupero possibile che Berlusconi ha ottenuto il consenso di un’intera Italia rimasta ai margini della contestazione degli anni sessanta. Per quest’Italia Silvio Berlusconi, superando e mettendo totalmente ai margini l’Italia della protesta, è stato colui che ha recuperato toni e stili di un mondo precedente che questa stessa Italia che lo ha votato aveva abitato e che, attraverso il suo successo elettorale, vedeva tornare a riaffermarsi.
Ovviamente, come ogni modello di consenso, anche quello presentato da Berlusconi doveva poi svilupparsi e confermarsi nei fatti. Dallo sviluppo prefigurato e auspicato bisognava passare allo sviluppo reale e concretamente sperimentato. L’Italia degli anni novanta, quella che applaudirà e sosterrà Silvio Berlusconi, non è più la stessa degli anni cinquanta. Al posto di un Paese povero, con una guerra alle spalle ed un Italia da costruire, abbiamo un Paese ricco, con un periodo d’oro alle spalle e dei privilegi corporativi da mantenere. La berlusconiana “rivoluzione liberale” rischia così di attivare reazioni impreviste quanto inattese.
Anche lo stesso intrattenimento televisivo, una volta squilibrato dalle esigenze del ricavo pubblicitario e insidiato dalle nuove reti – due problemi che la Rai degli anni sessanta certamente non aveva – finirà per sottoscrivere tutti i format possibili, giustificati solo dagli introiti e non dal contenuto. Mentre, nel frattempo, anche la politica sposta il suo quartier generale da Roma a Bruxelles e Berlusconi è sempre meno l’uomo delle televisioni per diventare il politico abile, attento ai rapporti internazionali. Ma qui è già un’altra storia: il ritorno auspicato ad un’Italia serena e ottimisticamente aperta al futuro finirà per non realizzarsi. l’Italia degli anni duemila si dirige verso delle strade inedite dove nulla, in realtà, è più come prima.
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