Della “foto di famiglia” del G7 italiano di metà giugno è rimasta in piedi solo Giorgia Meloni, premier ospite. Centocinquanta giorni fa Joe Biden era presidente americano in carica piena, già ricandidato contro Donald Trump dopo aver vinto a mani basse le primarie dem. Già un mese dopo il suo partito lo aveva tolto brutalmente dalla corsa e pochi giorni fa Biden ha dovuto assistere dalla Casa Bianca alla sconfitta della sua vice Kamala Harris, contro quel Trump che lui aveva battuto da sfidante quattro anni fa.



Emmanuel Macron ed Olaf Scholz – i due co-leader della Ue – volarono in Puglia entrambi ammaccati dalle batoste riportate la domenica precedente al voto europeo. Ma ambedue si mostrarono tutt’altro che disposti a cedere il terreno. Il presidente francese, ancora ad urne aperte, aveva giocato la carta spregiudicata delle elezioni legislative anticipate. Il cancelliere tedesco si era limitato a snobbare una consultazione senza impatti diretti sul parlamento di Berlino. Entrambi non rinunciarono a un estremo esercizio del potere: la riconferma in corsa di Ursula von der Leyen al vertice della Commissione Ue, con l’ostentata emarginazione di Meloni, premier italiana e leader dei conservatori europei, nettamente in ascesa a Strasburgo.



Da settembre il liberale Macron – dopo un’estate di manovre post-elettorali sempre più disperate – è una classica anatra azzoppata. I suoi poteri semipresidenziali – quando mancano ancora tre anni alla fine del suo secondo mandato – appaiono virtualmente azzerati dal nuovo premier gollista Michel Barnier, che risponde alla nuova Assemblea nazionale. Il socialdemocratico Scholz (nuovamente colpito da dure sconfitte elettorali nei Laender orientali) ha resistito fino alla sera della vittoria di Trump oltre Atlantico, ma alla fine ha gettato la spugna. Dopo l’apertura della crisi di governo, a Berlino si discute ormai solo sulla data delle elezioni anticipate.



Il premier britannico Rishi Sunak arrivò a Borgo Egnazia già certo che quel summit sarebbe stato per lui l’ultimo. Le elezioni anticipate Oltre Manica erano già fissate per due settimane dopo e i sondaggi (poi confermati dal voto) erano univoci: a Londra sarebbero tornati al timone i laburisti di Keir Starmer, ponendo fine al 14 anni di potere tory.

Il premier canadese Justin Trudeau è in carica dal 2015 e sulla carta lo resterà fino all’ottobre 2025. Ma giusto ieri Elon Musk – il Grande Fratello di Trump – gli ha personalmente pronosticato una sicura (cioè accelerata) uscita di scena. Il vero problema di Trudeau è che a non fidarsi più di lui è il suo stesso partito liberale (da sempre politicamente vicino ai dem statunitensi) che sta riflettendo sui sondaggi nettamente sfavorevoli al premier. Quest’ultimo – rampollo di una dinasty al potere a Ottawa dagli anni 60 del secolo scorso –  ha già guidato governi di minoranza. Ma nell’ultimo anno il suo consenso interno e internazionale si è fortemente eroso. L’assassinio di un separatista sikh esule in Canada – a probabile opera dell’intelligence indiana – si è sommato a un indebolimento della maggioranza Trudeau anzitutto ad opera delle forze politiche francofone: interpreti di un crescente scontento popolare sulla politica economica.

Il premier giapponese Fumio Kishida – ospite del G7 del 2023 a Hiroshima – aveva annunciato già in agosto le dimissioni dalla guida del partito liberaldemocratico, lo storico “partito di governo” del Giappone post-bellico. Quest’ultimo ha però riportato, il 27 ottobre scorso, un’altrettanto storica sconfitta elettorale. Il Ldp ha perso la maggioranza parlamentare ma soprattutto ne è lontano anche con i tradizionali partiti alleati, mentre le urne hanno premiato le forze del centrosinistra. E gli ennesimi scandali sul terreno della corruzione nel Ldp spiegano solo in parte il terremoto politico nel baluardo occidentale in Asia, a diretto confronto con Cina, Russia e India.

Questi i fatti. L’analisi più sintetica, intenzionalmente rozza a puri fini giornalistici, sembra essere: l’Occidente licenzia – democraticamente – i suoi leader per come hanno condotto la crisi geopolitica. Per l’inflazione, la recessione, l’incertezza complessiva provocate da guerre che gli elettorati (dal Nordamerica all’Europa fino all’Estremo Oriente) mostrano di non aver capito e condiviso. E per l’insistenza nel riproporre ricette politico-economiche non più realistiche se mai lo sono state: prima fra tutte la transizione verde ideologica e tecnocratica.

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