Oportet ut veniant scandala (è necessario che gli scandali avvengano) vae autem illi per quem veniant (ma guai a colui che li produce). Nei Vangeli di Luca e Matteo ci imbattiamo in questa frase di Gesù che forse qualche insegnamento lo può dare anche in tempi come questi, con poche certezze assolute e molte verità relative. In Italia, e a Napoli in particolare, gli scandali proprio non mancano. Allo stupro collettivo e continuato di due cuginette di 10 e 12 anni nell’inferno del Parco Verde a Caivano si è aggiunto a pochi giorni di distanza l’uccisione con tre colpi di pistola a bruciapelo di un giovane e promettente musicista da parte di un ancor più giovane aspirante boss addirittura minorenne per motivi relativi al cattivo parcheggio di un motociclo davanti a una pizzeria.
L’opinione pubblica ha reagito con una dose di sdegno superiore a quella mostrata in passato per fenomeni analoghi. La politica, con il premier Giorgia Meloni in testa, si è fatta sentire e vedere con una solerzia sconosciuta. Le forze dell’ordine si sono messe al lavoro con una convinzione e un dispiegamento di uomini e mezzi pari allo sconcerto provocato dai due episodi. Il cardinale Mimmo Battaglia ha usato parole molto più dure e taglienti di quelle ordinariamente usate. Non ha risparmiato nessuno nella sua omelia e in particolare ha fatto la barba ai ceti dirigenti invocando per la città un’élite all’altezza della situazione e non mediocre come quella, si suppone, oggi in dotazione. Gli scandali, allora, sono avvenuti. Sono un male, certamente, dal quale può tuttavia scaturire il bene se serviranno a svegliare le coscienze dormienti, a mobilitare persone, a mutare comportamenti.
I fatti sono troppo recenti per sapere se e come potranno incidere sulla collettività. Se saranno, cioè, davvero la molla per il riscatto da sempre atteso o l’ennesima tragica occasione perduta. Il precetto del Signore è chiaro sulle conseguenze: chi ha sbagliato, chi ha prodotto lo scandalo, deve pagare. Guai a lui, dice, nella certezza di non poter essere scambiato per un rissoso guerrafondaio. E allora tocca capire come distribuire le responsabilità dell’accaduto. Ai materiali esecutori del crimine? A chi non li ha educati e non ha vigilato sulle loro azioni? Al generico ambiente circostante? Queste domande hanno bisogno di risposte, perché se è vero che siamo di fronte a maniaci e assassini con nome e cognome è anche vero che tutti sapevano dei pericoli incombenti e pochi hanno agito per evitarli.
Chi ha voltato la faccia per quieto vivere e chi, come lo Stato, ha deciso di abbandonare al degrado e alla criminalità intere porzioni di territorio interferendo il meno possibile. Ai cittadini inermi che hanno dimenticato i propri doveri civici presi dalla paura e dallo sconforto, e forse anche dalla sfiducia nei poteri pubblici, poco possiamo imputare perché i cimiteri sono pieni di inutili eroi. Ma a chi è tenuto per mestiere al mantenimento dell’ordine non si possono fare sconti. Chi ha stabilito, quando e perché, che certe devianze possano essere tollerate? La coazione a ripetere i reati che oggi ci fanno tanta impressione – a sfondo sessuale o di morte – non la scopriamo certamente adesso. Che il Parco Verde o i Quartieri Spagnoli (dov’è cresciuto il killer ragazzino sfrontato e spietato) siano incubatori di crimini e criminali non è un segreto per nessuno. E non lo è mai stato. Eppure, sopraffazione e violenza regnano con scarso contrasto.
Lo stesso vale per altre aree del Paese che consegnano puntualmente alle cronache le storie più raccapriccianti senza che accada nulla di decisivo e duraturo per evitare che si ripetano. Come nel Don Raffae’ di Fabrizio De André in “Prima pagina venti notizie, ventuno ingiustizie e lo Stato che fa? Si costerna, s’indigna, s’impegna poi getta la spugna con gran dignità”.
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