Leggo sempre con grande interesse gli articoli di Fernando de Haro, le cui osservazioni mi trovano quasi sempre d’accordo. E ho molto apprezzato l’editoriale di ieri, intitolato Il mondo finito a Capitol Hill, che forse meritava un “è” – Il mondo è finito ecc. – tanto per togliere dalla testa del lettore l’idea che a Capitol Hill sia finito solo “un certo” mondo, come quando si parla del mondo della moda o del mondo del rock.



Diventa infatti sempre più chiaro, di giorno in giorno, che non c’è più nulla da ripristinare (l’idea di democrazia, di libertà, di uguaglianza sociale così come ci sono state trasmesse) e nemmeno da ricostruire (come avvenne dopo la Seconda guerra mondiale), ma che è tempo di costruire, costruire e basta, a cominciare da un rapporto con la storia, con la tradizione, con il passato che non possono più essere come li abbiamo pensati fino ad oggi.



De Haro parla spesso del pericolo, a livello planetario, di una polarizzazione delle posizioni. È, questo, uno spettacolo al quale una cattiva comunicazione ci ha abituato ottundendo la nostra facoltà di inorridire. Viviamo in una specie di post-normalità dove diventa normale, a tutti i livelli (non soltanto, dunque, a livello politico), lo scontro frontale. Lo abbiamo visto nel caso di Capitol Hill, lo vediamo tutti i giorni nelle cronache di quel cupio dissolvi che è la politica italiana, ma lo scontro esiste pressoché in tutti i talk show e perfino nei magazine femminili, dove spesso la “donna” appare smart, pratica, intelligente, creativa, dialogica in opposizione all’uomo che è verticista, ottuso, prepotente, machista.



Hanno chiamato post-verità questo atteggiamento, riassumibile in un semplice dogma: “Quello che io penso è vero perché lo penso io; se tu non lo pensi sei un imbecille”. È il principio di quella che De Haro ha chiamato “decomposizione identitaria”, che trasforma la società in un disaggregato tribale, dove ci si riconosce solo tra uguali (finché dura).

Anni fa scrissi un romanzo, Le cose semplici, che non tutti hanno capito, in cui descrivevo questo processo nella sua fase avanzata, con la fine di ogni forma di fiducia e, quindi, di ogni possibile patto sociale.

A Capitol Hill sono finite tante cose, non solo l’idea di libertà e di democrazia così come le abbiamo imparate sui libri di scuola, è finito anche l’illuminismo che in nome della ragione predicava il distacco e il disincanto, e diffidava di chi ci promette il migliore dei mondi possibili, ricordandoci che il mondo e l’uomo sono terribilmente complicati, e che i semplificatori, se non sono dei santi, è facile che siano dei criminali.

A Capitol Hill è morta la verità, così come l’abbiamo imparata, adaequatio rei et intellectus, l’intelligenza sottomessa all’esperienza. E l’abbiamo uccisa un po’ tutti: non soltanto “loro”, ma anche “noi”, compresi noi cattolici, quando per esempio ci siamo persuasi che il problema principale fosse comunicativo, che l’identità cristiana soffrisse di un ammanco mediatico, riducendo così la cultura cattolica a una branca della sociologia.

Spesso parliamo, a ragione, di vuoto educativo, però bisogna stare attenti, e domandarsi se questo vuoto educativo sia semplicemente la causa di questa eclissi della verità o se non ne sia, piuttosto, uno dei tanti effetti. Non dobbiamo infatti immaginare la scuola, compresa quella italiana, come una massa di insegnanti nullafacenti, irresponsabili e sindacalizzati. La scuola – anche quella statale – è piena di insegnanti bravissimi, intelligenti, responsabili e infaticabili, che danno la vita per i giovani.

Ciò non impedisce, tuttavia, lo sfacelo. E forse è il caso di domandarsi (so di attirare molti insulti con questa affermazione) se non sia da ripensare il ruolo stesso della scuola e dell’università, che oscillano tra una difesa quasi disperata del passato e un’apertura velleitaria al “nuovo”, che ricorda quei vecchi che cercano di compiacere i giovani assumendo il loro gergo.

Attenzione perciò alla difesa della tradizione. Dante, Leopardi, Manzoni, Shakespeare, Dostoevskij, Pavese non ci salveranno. Se la bellezza salverà il mondo, non sarà questo tipo di bellezza. Sarà una presenza umana, viva, magari sconfitta dalla storia, travolta dal brutto uragano della post-verità e della violenza che essa genera – una violenza presuntuosa, fatta di orgoglio insensato e di parole ripetute a prescindere da qualunque riscontro – ma capace di insinuare nei cuori (forse non se ne accorgeranno subito, forse ci vorrà del tempo, anni magari) quella nostalgia del vero che un giorno si risveglierà ascoltando una musica, guardando un albero, passeggiando in un mondo distrutto, soffermandosi per un istante a guardare negli occhi colui, o colei, che volevamo soltanto possedere, accorgendoci d’un tratto che tutto è dono, tutto è gratis.

Scintille di questa presenza sono ovunque. Ho seguito in questo periodo le cause di beatificazione di persone come Andrea Aziani ed Enzo Piccinini. Andrea, a Lima, portava in classe le candele per poter finire la lezione anche quando saltava la luce.

Una presenza salverà il mondo, con o senza Dante. E sono certo che anche Dante (vedi Purgatorio XI) è d’accordo con me.