“Non ho molto altro da dire”: con queste parole conclusive Draghi ha chiesto il voto di fiducia al Senato. In realtà, stava dicendo molto altro: chiedeva il voto perché fosse registrata ufficialmente la sfiducia, perché la responsabilità della crisi fosse attribuita al M5s e ai due partiti di governo del centro-destra, perché non si aprisse nessuno spiraglio ad un’altra soluzione di governo. È stato subito chiaro a tutti il senso e il peso della decisione assunta da Draghi: porre i partiti della sua larga maggioranza innanzi ad un’alternativa secca, proseguire l’esperienza di governo o finire anticipatamente la legislatura.



Così si chiude il cerchio: con la grave sconfitta al Senato – solo 95 voti a favore e dunque poco più della metà della maggioranza assoluta – termina un percorso che era stato inaugurato dal Capo dello Stato proprio avvertendo le forze parlamentari che il governo “senza formula politica” era l’unica soluzione praticabile. Anche in quel momento, insomma, la sola alternativa era lo scioglimento anticipato delle Camere.



Ma in una repubblica parlamentare nessun governo, neanche quello considerato come l’unico escogitabile, può resistere senza il sufficiente consenso delle forze politiche in Parlamento. Ed anche il difficile patto di reciproco affidamento che ha consentito la nascita del Governo Draghi ha subito la sorte che era facile pronosticare. Soprattutto, le divisioni verificatesi al momento cruciale dell’elezione del Presidente della Repubblica, e poi con la scissione del M5s ad opera dei gruppi collegati al ministro Di Maio.

Ma se alla frattura del M5s non è seguito alcun passo formale, alle dimissioni di Draghi – seguite al comportamento del M5s sul decreto-legge cd. “aiuti” – Mattarella ha risposto repentinamente, respingendole e chiedendo la parlamentarizzazione della crisi. Se l’intento era quello di raffreddare i conflitti, non sono bastati cinque giorni per modificare le posizioni contrapposte tra le forze parlamentari. Anzi, i secchi interventi di Draghi in Senato sembrano aver ancor più radicalizzato la situazione, sino alla drastica decisione di andare al voto di fiducia sulla risoluzione di Casini, quella che, in modo alquanto utopistico, chiedeva di confermare il sostegno ad una formula di governo che era ormai palesemente al capolinea.



Questa gestione della crisi, dunque, è risultata molto lontana dalla prassi che si è sempre seguita nella storia repubblicana: prevenire la certificazione della crisi di governo, ricondurre i conflitti al dibattito riservato tra le forze politiche, evitare soluzioni irreversibili. Ben consapevoli che ogni drammatizzazione determina esiti negativi non solo per il ripristino del confronto tra le forze politiche, ma soprattutto per la stabilità e la credibilità delle istituzioni.

Tutt’al contrario, si è lasciato che la pallina scendesse inesorabilmente verso la buca. Si è scelta la drammatizzazione piuttosto che l’attenuazione della crisi. Ed anche gli originali appelli pubblici alla permanenza di Draghi – pure provenienti da autorità delle istituzioni territoriali – hanno avuto un effetto manifestamente controproducente e divisivo. Dopo l’esito negativo della crisi di governo, quale autorevolezza potrà essere adesso riconosciuta, anche a livello internazionale, a Draghi ed ai suoi ministri? E, dal punto di vista interno, potrà essere loro assegnato il ruolo di governo neutrale ed imparziale che possa portare il Paese alle elezioni?  In definitiva, con questa gestione della crisi non si è contraddetta la finalità che si intendeva perseguire, cioè la stabilità e la continuità dell’azione dell’esecutivo?

Adesso spetta a Mattarella la decisione ultima: registrare l’irreversibilità della crisi o promuovere un ulteriore tentativo per trovare un’altra soluzione. Ma la strada delle elezioni anticipate è ormai segnata: tutte le forze politiche, nessuna esclusa, si dichiarano pronte ad andare al voto. E del resto, difficilmente Mattarella può smentire sé stesso: o Draghi o elezioni.

Il vero dubbio, allora, riguarda chi dovrà guidare il Paese in questa fase transitoria sino alle elezioni. Il comportamento tenuto da Draghi gli ha ormai alienato una cospicua parte delle forze politiche, e Mattarella non potrà non tener conto. La nomina di un governo elettorale – come già accaduto più volte in passato – appare, perciò, la scelta preferibile. Ma definire la composizione di una siffatta compagine non sarà operazione facile. Nella prassi repubblicana il governo elettorale è stato in genere un “monocolore” affidato al partito di maggioranza relativa, ma si capisce bene che molti si opporrebbero ad un governo elettorale guidato e composto dal M5s, tanto più considerate le pesanti accuse che, durante lo svolgimento di questa crisi, gli sono state lanciate praticamente da tutte le altre forze politiche. Abbiamo alle porte, allora, un ulteriore governo “tecnico” sino all’esito delle elezioni anticipate? Una soluzione ormai obbligata o un destino da cui non riusciamo a sfuggire?

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