La chiusura delle urne, domani alle 15, coincide con il sipario che cala su una fase del governo Draghi. Ci sono stati i primi “cento giorni”, fino all’estate, quando il senso di liberazione legato all’arrivo di Supermario e la svolta impressa alla campagna vaccinale gli rendeva tutto facile anche con partiti così diversi in maggioranza. Poi sono arrivati l’estate, il semestre bianco e la campagna elettorale per le amministrative che ha accentuato i contrasti tra le forze politiche: una tensione culminata sabato scorso con gli scontri di Roma e il ritorno dello spauracchio fascista. Ora si apre una fase nuova. Fino ai primi di febbraio, quando il Parlamento eleggerà il successore di Sergio Mattarella, il governo godrà di una sorta di bonaccia: nulla accadrà finché i giochi per il Colle non entreranno nel vivo. Nessuno si prenderà la responsabilità di alterare gli attuali equilibri.



Ciò significa navigazione tranquilla per Draghi? Tutt’altro. La campagna elettorale che si è appena conclusa ha lasciato segni profondi. La delegittimazione reciproca ha finito per alterare i rapporti di forza: il baricentro si è spostato a sinistra quando la Lega è andata in difficoltà sul green pass e il caso Morisi, per poi ricompattarsi sullo stop alla riforma del catasto e il no al reddito di cittadinanza, mentre le polemiche strumentali sul fascismo hanno messo in difficoltà la Meloni e il suo candidato Michetti. Domani i ballottaggi potrebbero assestare la situazione se il centrodestra strappasse Torino, essendo data per proibitiva la conquista di Roma; ma se il centrosinistra facesse cappotto nelle grandi città (dopo Milano e Napoli, anche la capitale e il capoluogo piemontese) lo sbilanciamento provocherebbe altre scosse sulla stabilità dell’esecutivo.



Il rischio non è una caduta di Draghi, ma il rallentamento del percorso delle riforme legate ai soldi del Pnrr. Dopo il primo turno il premier ha accelerato sul decreto fiscale tenendo il punto davanti alle resistenze di Salvini sul nuovo catasto. Ora dovrà insistere. Tra riforme strutturali e investimenti, sono 51 gli obiettivi del Recovery plan da centrare entro il 2021, ed è necessaria una forte coesione interna per completare il cronoprogramma visto che finora siamo a meno della metà. Ma strappi continuano a prodursi nella coalizione, per esempio su reddito di cittadinanza, flat tax o quota 100, temi estranei al Pnrr ma non agli interessi di due tra i maggiori partiti che sostengono Draghi. Alle porte c’è ora la riforma della concorrenza e ognuno sta già alzando le proprie barricate.



L’ondata di approvazione iniziale per Draghi si è molto affievolita. Il capo del governo deve adesso dimostrare non solo di essere un buon “amministratore delegato”, secondo la definizione che ne ha dato pochi giorni fa Matteo Salvini: una specie di commissario straordinario per garantire la destinazione dei fondi europei. Draghi deve dare non solo un compito ma anche un’anima al governo. In qualche modo è costretto a rispondere all’appello di Salvini per diventare il “pacificatore” di questa fase e non solo il manager dell’azienda Italia incaricato di rispondere ad azionisti che non sono i partiti che gli forniscono i voti in Parlamento.

Da una settimana, dopo la visita di solidarietà alla Cgil, il premier tace. Draghi non ha ceduto né sul green pass né sui tamponi gratis, attende l’esito dei ballottaggi per capire quali saranno i nuovi rapporti di forza e come è destinato a cambiare il clima di governo. Sullo sfondo resta comunque la corsa al Quirinale, nella quale il presidente del Consiglio non è certo tagliato fuori. Se ha davvero ambizioni, Draghi non può permettersi che tra chi lo sostiene si creino attriti eccessivi.

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