I mitici cento giorni, quelli che danno il segno di ogni Governo, scadono fra una settimana, o se vogliamo essere precisi lunedì 24 perché Mario Draghi ha giurato il 13 febbraio, e il più è ancora da fare.
Nella settimana che lo separa dalla fine della luna di miele, il presidente del Consiglio deve affrontare alcune scadenze fondamentali come il nuovo Decreto sostegni, il Decreto semplificazioni primo passo della riforma della Pubblica amministrazione che andrà varata entro la fine del mese, lo sblocco dei licenziamenti e una sfilza di nomine importanti (alla Rai, alla Cassa depositi e prestiti, alle Ferrovie).
I sondaggi mostrano che tre italiani su quattro lo appoggiano, un consenso che sfuma se si guarda alla coalizione parlamentare che lo sostiene.
Tirando un bilancio sommario potremmo dire che il capo del governo si è mosso tra novità e continuità. Ha accelerato in modo evidente la campagna vaccinale, ha gestito una cauta uscita dal lockdown a macchia di leopardo, ha presentato in tempo il piano per la ripresa e resilienza introducendo le quattro grandi riforme (giustizia, Pubblica amministrazione, concorrenza e fisco) che non facevano parte del progetto elaborato dal Conte bis e si trova a gestire una congiuntura economica in leggero, ma sensibile miglioramento. Tuttavia grava sulle nostre spalle un debito pubblico di 2 mila 651 miliardi di euro (dati di marzo).
Tra decreti ristori e Leggi di bilancio, il deficit aggiuntivo disposto dal precedente Governo e autorizzato dal Parlamento ha raggiunto i 426,8 miliardi negli anni che vanno dal 2020 al 2026. A tale somma vanno aggiunti i 40 miliardi del prossimo scostamento di bilancio e i 30 miliardi in cinque anni che rappresentano una sorta di riserva aggiuntiva destinata a finanziare le misure che saranno escluse dal Pnrr. Insomma, per tamponare la pandemia ci vogliono 500 miliardi tutti presi in prestito emettendo titoli di stato, oltre il doppio di quel che arriverà con il piano per la ripresa.
È un fardello molto pesante. Finora non ha provocato scossoni sui mercati grazie all’intervento della Bce che ha acquistato un quarto del debito italiano, ai bassi tassi d’interesse, a una liquidità ancora ingente sui mercati e a una bassa inflazione (condizioni che hanno consentito tassi di interesse minimi). Alcune di queste variabili possono cambiare (ad esempio le piccole fiammate di queste settimane accendono davvero un rialzo dei prezzi), ma il fattore più importante si chiama credibilità, essa dipende dal capo del governo e dalla stabilità della coalizione che lo sostiene. “Senza Draghi saremmo in bancarotta”, confessa agli amici un importante ministro.
Se ne rende conto la stessa Giorgia Meloni che dall’opposizione cerca di raccogliere tutti gli scontenti mettendo in difficoltà Matteo Salvini il quale tiene un piede dentro e uno fuori. Come ha dichiarato ieri alla Repubblica, non intende far cadere il Governo adesso (del resto l’8 agosto scatta il semestre bianco e non ci sarebbe tempo per una crisi, men che mai per elezioni anticipate). Il suo obiettivo è portare Mario Draghi al Quirinale per recarsi subito dopo alle urne con la speranza di andare a palazzo Chigi sostenuto da Fratelli d’Italia e da quel che resta di Forza Italia. È quel che vuol evitare il Pd che puntella l’esecutivo cercando di traghettare il Governo Draghi fino alla scadenza della legislatura nel 2023. Enrico Letta, però, si scontra con il sempre più rapido dissolvimento del Movimento 5 Stelle che fa saltare la già improbabile alleanza strategica tra i due partiti.
Insomma, la doppia emergenza, sanitaria ed economica, non è affatto finita e i partiti sono in manovra indebolendo di fatto il Governo, senza avere nulla di concreto (tanto meno di alternativo) da proporre su come affrontare la pandemia (le schermaglie sul coprifuoco sono irrilevanti) e la crisi economica che sta diventando sempre più crisi sociale. Il patrimonio di credibilità non è ancora intaccato, quello della stabilità può essere in bilico.
Se è così, la differenza tra debito buono e cattivo sparisce. Quando Salvini dice che “questo Governo non può fare le riforme” esprime paradossalmente gli stessi timori dei Paesi europei meno propensi ad affidare all’Italia 70 miliardi di euro a fondo perduto e una garanzia su prestiti per 122 miliardi di euro. Ma senza riforme non arrivano i soldi europei. È evidente che verranno completate nei prossimi anni, è scritto chiaramente nel calendario presentato dal Governo, tuttavia vanno impostate subito. Per due di esse, quelle che riguardano la Pubblica amministrazione e la giustizia non c’è tempo da perdere. Il ministro Renato Brunetta ha confermato al Foglio che presenterà fra una settimana il provvedimento sulla semplificazione. Quanto al processo civile, andrà cambiato entro l’anno, il problema è che avverrà con un disegno di legge, il che riporta in ballo tutte le resistenze e le divisioni tra i partiti.
Una scadenza ad alto potenziale è lo sblocco dei licenziamenti. La prima fase parte a luglio, da ottobre liberi tutti con il rischio di veder schizzare la disoccupazione. E anche qui non ci sono convergenze nemmeno sulla carta. Il ministro del Lavoro Andrea Orlando vorrebbe introdurre sei mesi di sgravi contributivi al 100% per chi assume disoccupati e una Naspi, un assegno di disoccupazione, senza tagli fino alla fine dell’anno. Il segretario della Cgil Maurizio Landini insiste sulla proroga del blocco. Sarà difficile affrontare l’emergenza, ancor più gestire la transizione ecologica e quella digitale: non si tratta solo di creare nuovi posti di lavoro per compensare quelli che scompariranno, ma anche di trasformare il lavoro per chi lo manterrà. Gli strumenti sono tutti da costruire e non è una questione tecnica: Orlando parla di un “contratto di rioccupazione”, senza consenso è una definizione puramente retorica.
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