Si diceva da parte di molti che non si può cambiare la giustizia a colpi di referendum, ma che deve essere la politica a occuparsi della riforma. Bene, dopo la sosta dovuta alla tornata elettorale, tocca quindi alla politica rimettersi al lavoro: laddove hanno fallito i referendum dovranno invece riuscire i rappresentanti del popolo.



Bisogna ricominciare da dove ci si era fermati: la Camera aveva già approvato a larga maggioranza la riforma dell’ordinamento giudiziario e ora tocca al Senato. Prima i lavori in commissione e da mercoledì pomeriggio discussione in aula con approvazione della riforma che dovrebbe arrivare giovedì.

E così, oltre a molte altri aspetti dell’ordinamento giudiziario, anche le materie oggetto di tre dei quesiti referendari su cui si è espressa solo una parte minoritaria dei cittadini (solo il 20%, ma con netta prevalenza dei sì), saranno comunque al vaglio dei rappresentanti del popolo.



Il Senato è infatti chiamato ad approvare la separazione delle funzioni che si voleva introdurre con il quesito numero tre. Il referendum, se si fosse raggiunto il quorum, avrebbe impedito ai Pm di cambiare lavoro e diventare giudice. E viceversa. Dopo il concorso il magistrato avrebbe dovuto scegliere se fare per tutta la vita l’accusatore o il giudice terzo, senza poter cambiare casacca. La riforma in discussione stabilirà comunque questo principio con una piccola deroga: i magistrati potranno cambiare ruolo una volta in carriera (anziché quattro come accade oggi). Concessione questa comunque non gradita all’Anm, il sindacato dei magistrati, che ha ritenuto qualche settimana fa di protestare contro questa iniziativa indicendo un clamoroso sciopero della categoria, poi miseramente fallito.



E’ in approvazione poi la proposta di consentire agli avvocati nominati nei consigli giudiziari di partecipare alla discussione e al voto allorquando si tratta di dare i pareri in materia di valutazione di professionalità dei magistrati. Come si ricorderà era questo l’obiettivo anche del referendum numero quattro. La proposta del governo è più articolata in quanto prevede che gli avvocati possano votare solo nei casi in cui i loro ordini di appartenenza hanno espresso qualche giudizio sui singoli giudici in valutazione. Si tratta di un accorgimento che secondo l’intenzione del legislatore impedirà agli avvocati di esprimere pareri condizionati da personalismi e non fondati su valutazioni oggettive.

Infine la riforma delle elezioni del Csm (il Consiglio Superiore della magistratura), l’organo di autogoverno dei giudici. Dopo il caso Palamara era scoppiata una clamorosa polemica dovuta al fatto che si era scoperto che le correnti interne alla magistrature, attraverso i loro rappresentati al Csm, si spartivano le nomine dei capi degli Uffici dei più importanti tribunali italiani. Da qui la necessità di rivoluzionare le modalità di voto dei componenti togati del Csm. Il referendum proponeva di eliminare un passaggio fondamentale dell’attuale sistema elettorale e cioè la necessità che ogni candidato all’importante consesso fosse presentato da un rilevante numero di colleghi (e cioè gli aderenti alla corrente di appartenenza del candidato stesso). Il referendum è fallito, ma la riforma Cartabia rivoluzionerà comunque il sistema elettorale consentendo ad ogni singolo magistrato di candidarsi senza la necessità di essere sostenuto da liste di presentatori (anche se a detta di degli esperti ciò non impedirà alle correnti di influire comunque sul voto…).

Resta da chiedersi: ma allora questi referendum erano proprio necessari se il Governo stava lavorando per ottenere gli stessi risultati?

Vero è che quando i proponenti iniziarono la raccolta delle firme la riforma Cartabia era ancora in gestazione, ma se il Senato avesse definitivamente approvato la legge prima dei referendum forse questa debacle sarebbe stata evitata.

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