La mano di Mario Draghi nell’infornata di sottosegretari si vede in due elementi: l’accelerazione imposta alle nomine e nella scelta di affidare la delega sui servizi segreti al capo della polizia, Franco Gabrielli. Il resto è lotta e scontro tra i partiti della nuova maggioranza, che si conferma un ibrido, in ossequio alla “transizione ecologica”. Maggioranza ibrida come certe automobili, che per metà vanno con un motore “vecchio” a benzina e per il resto vengono trainate da un tecnologico propulsore elettrico. Draghi è l’elettrico.
È lui a dare lo spunto, l’accelerata. Sa che dare troppa corda ai partiti lo potrebbe trascinare nel pantano, ma nello stesso tempo deve concedere il suo spazio alla politica che lo sostiene. Quindi Draghi convoca, sospende, richiama e fa decidere.
Ieri il capo del governo ha dato il colpo di acceleratore mettendo un ultimatum ai partiti. Il Consiglio dei ministri si è riunito, scontrato, fermato e alla fine è ripreso licenziando la lista dei 39 che rispetta il peso parlamentare delle varie forze: 11 del M5s, 9 leghisti, 6 ciascuno a Pd e Forza Italia, 2 di Italia viva, e 1 a Centro democratico, +Europa, Leu, Noi con l’Italia, e infine Gabrielli. È il risultato dei pesi e contrappesi sul bilancino della politica, qui non ci sono nuovi motori elettrici ma marmitte che tossiscono. A parte Gabrielli, non ci sono nemmeno nomi che sollevino qualche “ooooh” particolare. Le indicazioni sono però rivelatrici dell’atteggiamento dei partiti.
I grillini hanno badato a confermare chi apparteneva al Conte 2 (Di Stefano, Sileri, Cancelleri, Todde, Castelli, Sibilia) aggiungendo un po’ di quote rosa. La Lega è il partito che riserva le maggiori sorprese, a partire dal numero: i 6 sottosegretari della vigilia sono lievitati a 9 e certi nomi sono molto significativi. Durigon, Centinaio, Molteni, Morelli (ma anche gli altri) sono salviniani di ferro e personalità molto agguerrite, a testimoniare quanto il leader leghista voglia contare nel governo Draghi. Se il M5s ha fatto una scelta di conservazione movimentista e la Lega di impegno battagliero, il Pd appare il partito più dimesso. Da un lato è bloccato tra le esigenze di garantire rappresentanza femminile, di esaudire le correnti interne e soddisfare gli uscenti del Conte 2; dall’altro è sminuito da una serie di “gran rifiuti” interni.
Al contrario della Lega, che ha piazzato al governo alcuni dei suoi pezzi da 90, il Pd ha preferito una scelta di più basso profilo, in linea con il potere contrattuale di cui gode di questi tempi il segretario Nicola Zingaretti, cioè non molto. Tra un lapsus clamoroso (ha confuso il Pd con il Pci) e un tweet fuori luogo (il sostegno alla povera Barbara D’Urso), Zingaretti appare disorientato. L’unica scelta tutta sua è quella di Alessandra Sartore, persona di fiducia del segretario Pd: è assessore regionale del Lazio al bilancio e al patrimonio. È stata piazzata all’Economia e riferirà direttamente a Zingaretti quanto alle scelte per la gestione del Recovery fund. Il fatto che abbia dovuto pescare una non parlamentare per questo ruolo la dice lunga sulla presa che il segretario ha su un partito che rischia di sfaldarsi tra la debolezza della leadership e le rivalità delle correnti interne. Infine, va segnalato che Forza Italia si è presa la delega all’editoria, settore sempre vicinissimo al cuore di Silvio Berlusconi.