Certo che siamo una comunità nazionale decisamente strana.

Dopo 79 anni, giunti ormai alla terza generazione, anziché ricordare e festeggiare tutti insieme il ritorno alla libertà che era costato tanti lutti e distruzioni, abbiamo trasformato il 25 aprile in un’occasione di divisioni, insulti, incidenti di piazza, polemiche reciproche.



Ogni volta c’è un “caso”, quest’anno si è arrivati a parlare di “regime” perché non è stato trasmesso un monologo di Scurati su Rai 3 (poi comunque ed ovunque letto e riletto integralmente mille volte) che non trovava di meglio che concludere: “La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici e finché quella parola – antifascismo – non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana”.



Demagogia spicciola, senza rendersi conto che questa data è stata strumentalizzata così tanto dalla retorica che oggi – purtroppo – per la maggioranza degli italiani (indagine del “Corriere”) non significa più niente. Se poi la Meloni ha perfino pubblicato integralmente il post di Scurati sul proprio sito, il gesto è stato commentato come “una seconda censura” perché (Ansa) “la mera pubblicazione di un testo non rende giustizia all’autore, non pareggia la censura, perché lo scopo di quella pubblicazione era soltanto additare ed esporre Scurati al pubblico ludibrio dei follower…”. Vabbè; Scurati santo subito, e poi?



Bersani parla di “cultura intrinseca del manganello” (quello che secondo la Schlein la polizia non deve più usare in piazza) con riferimento alla premier, mentre si diffondono esempi di autentica scemenza come la censura e una diffida scritta a un professore di musica che ad Ariano Irpino ha consegnato, a loro richiesta, lo spartito di “faccetta nera” a degli studenti.

Intanto, forze dell’ordine sono mobilitate in piazza per cortei, violenze e proteste che poco hanno a che fare con la Liberazione e assemblando temi, situazioni, guerre diversissime tra loro.

Impossibile tentare la ricerca di un minimo comune denominatore, almeno per chi – soprattutto a sinistra – dalla guerra civile ha tratto da decenni una linfa di auto-sopravvivenza e teme che, perdendone il monopolio del ricordo, non avrebbe forse più ragione di esistere. Perché è davvero singolare che dopo milioni di articoli, trasmissioni, saggi, libri, documenti, comizi, appelli, dichiarazioni ecc. ecc. a tanti anni dai fatti ci si divida ancora tra italiani, anzi, ci si divida sempre di più.

Forse sarebbe prova di coraggio e volontà di pacificazione (perché una democrazia non deve avere paura dei fatti) dare voce anche a ricostruzioni storiche meno di parte e magari ammettendo anche cosa successe in Italia dopo il 25 aprile, ovvero quella che Indro Montanelli chiamò “macelleria messicana” ai danni di tanti fascisti o presunti tali. Togliatti lo capì per primo e già nel ’46 spinse per una amnistia che – si disse – salvò tanti fascisti, ma in realtà soprattutto tanti dei “suoi”.

Era passato solo un anno, decenni dopo Pansa ci riprovò ma – per leso antifascismo – venne emarginato, anche perché sembra che stampa e tv non capiscano che, riproponendo ogni giorno gli stessi temi con una infinita ripetizione dei fatti, si contribuisce solo a coprirli di retorica e quindi a renderli scontati, mentre non ci fu nulla di scontato in quegli anni tremendi.

Come risultato abbiamo perfino perso il gusto alla libertà ritrovata, che è come l’aria: ci si accorge che c’è solo quando manca.

Le responsabilità storiche del regime fascista sono inequivocabili e cristallizzate, nessuno le misconosce, ma serve distribuire patenti di leso antifascismo a chi si permette di contestare non i fatti in sé, ma a volte la loro interpretazione, che quando diventa roboante, ripetitiva e troppo di parte perde credibilità?

Nell’era del pluralismo e della libertà allora conquistata, morti tutti gli attori che furono in campo, perché non è ancora arrivata l’ora di chiudere quelle ferite?

Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia pluralista dove uno zio militò nella RSI, un altro era partigiano cattolico mentre mio padre era stato deportato in Germania: fin da piccolo mi hanno insegnato che non c’è una Verità suprema, perché quegli anni furono pieni di persone luminose e delinquenti, violenze, eroismi ed atroci rappresaglie. Soprattutto, mentre la gran parte cercava di “galleggiare” in attesa della fine del conflitto in cui il fascismo ci aveva fatto precipitare, c’erano uomini e donne che in buona fede lottavano per un proprio ideale.

Mi sono sempre chiesto se tante di quelle persone che applaudivano gli americani che sfilavano per la Roma liberata nel ’44 o inneggiavano ai partigiani per le vie di Milano il 25 aprile non fossero le stesse persone che il 10 giugno del ’40 in Piazza Venezia (e contemporaneamente in tante altre piazze d’ Italia) inneggiavano per la dichiarazione di guerra o, pochi anni prima, per la proclamazione dell’impero.

È facile cambiare bandiera, schierarsi con chi vince all’ultimo minuto; e quanti tradimenti, cambi di fronte, delazioni, furbizie ci sono state in quegli anni. Ma proprio per questo il 25 aprile dovrebbe essere la festa della pacificazione nazionale in un clima di reciproco rispetto. Un’illusione, perché è più facile denigrare che rispettare, dividere che unire.

Vorrei che il 25 aprile fosse invece un momento di ricordo e magari di silenzio, di rispetto per chi credette fino in fondo ai propri ideali, soffrendo per essi e spesso lasciandoci la pelle. Eroi dimenticati sullo sfondo della retorica di questi decenni, ma persone vere che ancora oggi meritano la memoria di tutti gli italiani.

 

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