Nel G7 di Hiroshima ha fatto irruzione naturalmente la guerra in Europa e la presenza di Zelensky ha fatto parlare addirittura di un G8 con l’Ucraina al posto della Russia. Ma il vero convitato di pietra è Xi Jinping. Mai così evidente è apparso il disallineamento tra la Cina e gli Stati Uniti. Tanto che parallelamente si è svolto un summit alternativo nell’antica capitale cinese Xian, la cui ambizione è quella di creare un’alleanza strategica con le ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale: Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. Un rapporto sigillato da una dichiarazione solenne con un piano per il futuro. La Cina avanza nella sua strategia imperiale e s’allontana sempre più da quello che potremmo chiamare il club delle liberal-democrazie.
Sempre negli stessi giorni a Macao si è celebrato un altro rito con una fiera tecnologica Beyond Expo che intende creare l’alternativa asiatica a quella americana che si svolge a Las Vegas. Due mondi paralleli in competizione, anzi ormai in contrasto, una frattura che mette l’Italia davanti a scelte difficili piene di insidie e di conseguenze anche economiche. Perché dopo Hiroshima diventa più urgente cominciare il disincaglio dalle relazioni troppo ravvicinate e troppo pericolose con la Cina.
Il primo passo dal forte significato politico è liberarsi dalla nuova Via della seta. Dopo la conversazione tra Giorgia Meloni e Joe Biden, fonti di palazzo Chigi si sono affrettate a sottolineare che non c’è stata nessuna richiesta formale di cancellare l’accordo firmato nel marzo 2019. Il Memorandum of understanding scade nella primavera prossima, ma occorre decidere entro la fine dell’anno. È evidente che non potrà essere più confermato, fu un errore già allora, ma è insostenibile dopo tutto quel che è successo. Il Governo italiano cammina su un ghiaccio sottile. C’è senza dubbio una pressione del mondo degli affari affinché non si crei un baratro con il mercato cinese verso il quale si dirigono tante esportazioni italiane, d’altra parte i nostri più vicini concorrenti europei, tedeschi e francesi, non hanno nessuna intenzione di interrompere un commercio proficuo. Se guardiamo agli stessi Stati Uniti possiamo vedere che l’export verso il colosso asiatico è in aumento. Si tratta dunque di distinguere le relazioni mercantili da quelle di natura strategica e politica, un esercizio complesso e delicato.
L’Italia deve uscire dall’abbraccio della Belt and Road Initiative, ma vuole decidere tempi e modi per non compromettere definitivamente il rapporto con Pechino, tuttavia dopo la svolta di Hiroshima restare partner strategici diventa incompatibile con l’appartenenza all’alleanza occidentale. Una scelta inevitabile che porta con sé una serie di ricadute sul mondo delle imprese, quelle a partecipazione statale come quelle private. Il memorandum stesso era stato concepito come il culmine di un’estesa penetrazione cinese nel tessuto produttivo italiano.
Prima della pandemia le aziende partecipate da capitali cinesi erano arrivate a 760 facenti capo a ben 405 gruppi con poco meno di 44 mila dipendenti e un giro d’affari di oltre 25 miliardi di euro. Al primo posto energia e infrastrutture, con partecipazioni di circa il 2% in Enel ed Eni. Più consistente l’ingresso nella holding Cdp Reti che controlla Terna, Italgas e Snam, della quale State Grid International detiene un cospicuo 35% pagato 2,1 miliardi. Poi è arrivata Ansaldo Energia: Shanghai Electric aveva raccolto un 40% in cambio di 400 milioni di euro. Bank of China ha investito un 2% anche in Telecom Italia, Prysmian, Fiat Chrysler, Assicurazioni Generali e Mediobanca. La più antica presenza nelle telecomunicazioni risale al 2000 quando Hutchison Wampoa del magnate di Hong Kong Li King, aveva fondato H3G poi confluita in Wind Tre controllata da CK Hutchison holding. Per controllare la Pirelli, Chem China ha speso ben sette miliardi di euro. Anche la Benelli è finita nell’orbita di Pechino, come i motoscafi Ferretti e la De Tomaso. Forte l’interesse per i marchi del lusso con Roberta di Camerino, Miss Sixty, Krizia, Cerruti, nel vino e nell’alimentare con i marchi oleari Sagra e Filippo Berio. Le mire sui porti sono state in parte contenute: a Gioia Tauro è entrata la Msc di Aponte, a Trieste i cinesi arrivano attraverso la società del porto di Amburgo e il Governo italiano minaccia il golden power, resta la gestione di minoranza a Savona-Vado Ligure.
L’intreccio, come si vede, è difficile da dipanare. Non si tratta certo di espellere tutti i capitali cinesi, ma occorre fare una mappatura e una cernita accurata per preservare le attività esposte dal lato della sicurezza energetica e militare. Le partite più complesse e costose riguardano le reti elettriche e la Pirelli. Per la prima, la Cdp potrebbe rivolgersi a fondi d’investimento, per la compagnia degli pneumatici si parla di una cordata italiana, ma anche di un interessamento della Michelin. Sarà il doppio risiko dei prossimi mesi. Un bel rompicapo per Giorgia Meloni che non può certo impiegare le scarse risorse pubbliche da dedicare a ben altri progetti, per rimediare agli errori del Governo Conte-Salvini.
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