Le speranze, anzi ormai le certezze, del cosiddetto rimbalzo economico pare che tranquillizzino il governo di Mario Draghi. Sia gli osservatori italiani come quelli internazionali accreditano la portata del rimbalzo a quasi il 6% di crescita del Pil per la fine di quest’anno e un valore intorno al +4% nel 2022. In termini reali, si dovrebbe ritornare ai valori del 2019, cioè all’anno precedente all’esplosione del Covid.



Le valutazioni su questa ripresa, naturalmente al netto della resistenza attuale al virus e della possibilità che la grande campagna vaccinale riesca a evitare fermate improvvise, chiusure o addirittura nuovi catastrofici lockdown, variano, passando da visioni forse troppo ottimistiche a scenari di pessimismo, oppure alla realistica visione di riuscire a coniugare il cosiddetto rimbalzo con una prospettiva di rinnovamento dell’economia italiana.



In sostanza, la ripresa dovrebbe servire non solo a cancellare il cupo periodo del Covid (per una questione normale di ritorno al lavoro e alla produzione), ma anche a superare la sostanziale stagnazione o la bassa crescita che ha caratterizzato l’Italia negli ultimi vent’anni, colpita anche dalla crisi finanziaria che nel 2008 prima travolse gli Stati Uniti e poi investì duramente l’Europa. In questo caso i problemi sono inevitabilmente complicati e legati allo stato dell’apparato produttivo italiano.

Vedremo nel giro di pochi mesi come si potrà riuscire a far decollare, magari come nel dopoguerra, l’Italia. Proviamo però per un attimo a fare la storia di questi ultimi trent’anni di storia economica italiana. Difficile dimenticare che il piano delle privatizzazioni stabilito nella seconda “riunione” sul “Britannia” nel 1992, quella che escludeva Mediobanca, e che nessuno (chissà perché) ricorda mai, non ha dato i risultati sperati. Di fatto l’Italia, con lo smantellamento della sua industria pubblica, non aveva affatto ripianato il suo debito, ma si era trovata sguarnita in alcuni settori produttivi in cui aveva un ruolo anche internazionale.



Il ministro alle Partecipazioni statali dell’epoca, Giuseppe Guarino, rimase stupito di fronte a un “piano di privatizzazioni” che gli sembrava di svendita, mentre lui suggeriva invece di valorizzare alcune realtà per un certo periodo di tempo e poi collocarle sul mercato. Era una posizione che condividevano anche uomini come Lorenzo Necci, che aveva di fatto realizzato in Italia l’alta velocità. Ma prevalse la linea oltranzista delle “privatizzazioni subito”, supportata anche da grandi imprenditori che erano rimasti sconfitti nelle battaglie industriali alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso. Erano i cosiddetti “capitani di sventura”, che sono ormai diventati in Italia solo un ricordo quasi fastidioso.

Accanto alla svendita dell’apparato industriale pubblico, se ne andò la grande industria, insieme a cinquecento marchi di aziende conosciute in tutto il mondo e, per la demenziale politica dell’austerirty dopo la crisi finanziaria, si trasferirono dall’Italia in altri paesi circa 45mila piccole-medie aziende.

Il problema che si presenta, quindi, al governo di Mario Draghi ha certamente una base finanziaria che l’Unione Europea mette a disposizione dell’Italia (interamente da ripagare come debito), ma la realizzazione di base del cosiddetto Pnrr deve inoltre prevedere, in condizioni del tutto diverse, anche i nuovi lavori che la tecnologia mette e a disposizione nel futuro di nuove fabbriche, di nuovi processi produttivi e di una nuova organizzazione del lavoro.

Allora occorre subito dire che il cosiddetto rimbalzo va valutato attentamente, va quasi preso con le molle per spiegarlo in modo realistico, con una serie di piani industriali da studiare per il futuro e con una serie di riforme che in Italia si aspettano da troppo tempo. Limitarsi a un elenco di riforme necessarie come giustizia, semplificazione burocratica e nuova fiscalità è quasi scontato.

Il problema deve certamente partire da riforme che interessano, da anni – lo ripetiamo -, il nostro Paese, ma il centro del problema, a nostro parere, è che le riforme italiane dovrebbero avviare un nuovo ruolo che dovrebbe nascere all’interno dell’Unione Europea. E questo ci lascia molto perplessi, se non scettici.

In questi giorni si sta parlando, con una insistenza dimenticata in passato, di una difesa comune europea. Ma c’è ancora qualcuno che si ricorda che questo era uno degli obiettivi fondamentali della politica europea di Alcide De Gasperi? Spesso l’Europa e la stessa Ue sembrano dimenticarsi di certi appuntamenti che sembrano indispensabili.

Facciamo solamente due altri esempi. Se esiste veramente una vocazione europeistica, che cosa si aspetta a fare una riforma fiscale che sia comune a tutta l’Europa? Allo stesso modo, se esiste questa vocazione unitaria o federale, che cosa si aspetta a varare una legislazione sul lavoro, un reddito minimo generale e una battaglia contro le diseguaglianze? Magari le cosiddette delocalizzazioni delle aziende si ridurrebbero.

Inoltre la stessa “svolta green” che scadenze dovrebbe avere per non ridursi a una sorta di “bagno di sangue”, come qualche volta sibila il ministro Roberto Cingolani?

A questo punto, possiamo dire che certamente l’Italia deve fare la sua parte, ma oggi, proprio se viene vinta la battaglia contro questa maledetta pandemia, l’Europa potrebbe fare un salto di qualità e varare una serie di riforme comuni. Forse sarebbe questo proprio il momento giusto per far uscire l’Europa da una difficoltà geopolitica, che è anche economica, e che vede spesso i paesi membri andare ognuno per conto suo. Oggi più che mai l’Ue dovrebbe compattarsi e unirsi in modo sostanziale per giocare un ruolo geopolitico ed economico.

Forse sarebbe più utile questo obiettivo piuttosto che il dibattito infinito su “green pass” e tamponi salivari.

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