Con l’approvazione della nuova proposta del Pnrr da parte del Parlamento è possibile fare un primo bilancio dell’attività svolta nei primi due mesi dal nuovo Governo Draghi. Al di là del diverso grado di accoglienza delle forze politiche che hanno deciso di sostenerlo, soprattutto per l’autorevolezza del nuovo presidente del Consiglio, ci si attendeva dal nuovo esecutivo un deciso cambio di marcia nella predisposizione delle azioni di contrasto della pandemia, nella predisposizione dei programmi per l’utilizzo delle nuove risorse europee, e nel sostenere gli interessi del Paese negli ambiti sovranazionali.
Nonostante la notevole mole dei problemi rimasti aperti, e che non lasciano grandi margini di tempo per luna di miele che di solito viene assicurata alle personalità chiamate a salvare la Patria, è difficile negare il salto di qualità generato nella campagna delle vaccinazioni, nella redazione della nuova proposta di Pnrr, e soprattutto, per la capacità dimostrata dal neo presidente del Consiglio di condizionare gli orientamenti assunti di recente nell’ambito delle Istituzioni dell’Ue.
Questi aspetti non vanno sottovalutati. Nei prossimi due mesi l’Italia sarà chiamata ad assumere impegni destinati a vincolare le politiche economiche, e l’utilizzo delle risorse finanziarie per i prossimi 5 anni, con riflessi di lungo periodo per la gestione dei conti pubblici.
Un fattore tanto evidente, quanto del tutto trascurato dalle principali forze politiche che sostengono l’esecutivo, che si comportano come se la parentesi del Governo Draghi debba essere considerata quasi come incidente di percorso inevitabile e una pausa da utilizzare per affilare le armi in vista delle prossime scadenze elettorali.
La condizione del successo dell’operazione Draghi non è legata alla qualità tecnocratica dei programmi contenuti nel nuovo Pnrr. Nemmeno dalla capacità, tutt’altro che scontata, di riuscire a spendere un volume di risorse finanziarie pari al triplo di quella media dimostrata negli anni precedenti. La vera scommessa, relazionata al legame esistente tra le riforme strutturali e i programmi contenuti nel Recovery è quella di rimediare il sottoutilizzo delle risorse disponibili, inteso come complesso di energie finanziarie pubbliche e private, imprenditoriali e lavorative, che è all’origine del crescente divario della nostra crescita economica rispetto a quella della media dei paesi aderenti all’Ue.
In questo senso il recupero dell’autorevolezza dell’esecutivo rappresenta solo la precondizione necessaria del successo. Per riportare la crescita del Pil stabilmente sopra il 2% medio annuo, le iniziative del Governo devono essere affiancate dalla capacità di coinvolgere la molteplicità dei soggetti che per competenze istituzionali e operative concorrono alla formazione e all’attuazione dei programmi, la cosiddetta governance, ovvero dal mantenimento delle condizioni, stabilità, certezza delle regole, ottemperanza degli impegni, che assicurano la governabilità dei processi.
La formula delle tre G (Government, Governance, Governabilità) è ben lungi dall’essere realizzata, e non può essere delimitata alla definizione, ancora incerta, delle cabine di regia per l’attuazione del Pnrr, o alle semplificazioni delle procedure di attuazione annunciate.
Per rendere l’idea delle differenze che intercorrono tra i buoni propositi e i processi reali, possiamo prendere in considerazione due esempi significativi. Il primo riguarda l’attuazione del superbonus del 110% per le ristrutturazioni edilizie, finalizzato a migliorare la qualità energetica e sismica delle abitazioni, che per l’assurda promessa di rimborsare le famiglie per un valore superiore alle spese sostenute, ha prodotto l’effetto boomerang di azzerare il conflitto di interessi tra committenti e fornitori generato dalle precedenti detrazioni fiscali (50-65% del valore delle ristrutturazioni) incentivando l’accordo tra gli stessi per alzare i costi delle prestazioni interamente sovvenzionate dallo Stato, e creato un’abnorme mole di adempimenti burocratici e tecnici, alcuni dei quali del tutto ingestibili, che ne hanno compromesso l’attuazione (circa 4mila autorizzazioni in tutta Italia in poco meno di un anno).
Un secondo esempio è rappresentato dall’incapacità di costruire una governance adeguata per le politiche attive del lavoro, disperse su una miriade di competenze prive di un efficace coordinamento, attribuite a ministeri nazionali, regioni, province, agenzie del lavoro, servizi per l’impiego pubblici e privati, istituzioni formative ed enti bilaterali. Ma in grado di divorare diverse decine di miliardi di euro negli ultimi 10 anni, senza offrire riferimenti stabili, e servizi alle persone che a vario titolo cercano lavoro o sono desiderose di cambiarlo.
Ma esempi simili possono si possono trovare in molteplici ambiti delle politiche del welfare, per la gestione dei servizi e degli incentivi, con modalità che purtroppo, in alcuni ambiti, vengono riproposte anche nel nuovo Pnrr, per una parte significativa dei 450 progetti attuativi in esso contenuti.
Tutto questo meriterebbe un profondo ripensamento delle politiche fallimentari che hanno accompagnato il declino economico della nazione negli anni 2000, ma che le forze politiche che sono alternate al governo hanno attribuito essenzialmente ai vincoli introdotti con il Patto di stabilità per i Paesi dell’Eurozona. L’evidenza dei numeri ha dimostrato più volte la debolezza di questi argomenti. Il cambio di fase, la sospensione dei vincoli del Patto di stabilità e la messa a disposizione dei nuovi fondi ci privano di qualsiasi alibi e impongono l’esigenza di accompagnare i nuovi interventi con analisi spietate delle criticità per offrire risposte ragionevoli, e praticabili in termini di innovazione. Le potenzialità delle nuove tecnologie, e le risorse disponibili, fanno presagire la possibilità di traghettare la nostra comunità nazionale verso gli obiettivi di una crescita stabile e qualitativamente migliore. Ma non possiamo illuderci, la transizione comporterà dei costi sociali che vanno gestiti con realismo e ragionevolezza, ma senza perdere di vista gli obiettivi primari e senza indulgere nella tentazione di rimettere in campo gli approcci ideologici o peggio, di istigare il malcontento popolare.
L’esperienza del Governo Draghi serve a chiudere due cicli della politica italiana, identificati in modo erroneo, e autoreferenziale, con le definizioni della seconda e terza repubblica, per aprirne un altro, tutto da costruire, e che dipende dalla capacità di consolidare un nucleo di valori e di interessi condivisi tra le principali forze politiche.
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