Dopo il traguardo (Feltrinelli, 2021) il libro del marciatore campione olimpico nella cinquanta chilometri di Pechino nel 2008, è una storia così struggente e meravigliosa che ogni padre e madre dovrebbe leggere. È una vicenda straordinaria perché imperfetta: densa di passione, abnegazione, determinazione, zeppa di trionfi e fallimenti, di sconfitte e cadute senza fine. Si divora perché non è una favola, non finisce come vorremmo (infatti finisce molto meglio), ma riesce a far venire a galla i tratti più sublimi (e necessari) della nostra umanità.
Alex Schwazer, dopo anni di gavetta, sacrifici e allenamenti durissimi arriva finalmente in cima al tetto del mondo e vince le Olimpiadi. È la gloria: copertine delle riviste, prime pagine dei giornali, ospite in televisione e dal presidente del Consiglio, premi e tributi: è la fama. Ma qui, in qualche modo, inizia la sua personalissima tragedia. Avverte tutte le orrende, gigantesche, pressanti, insistenti aspettative che come una morsa lo circondano e fa l’errore: la paura lo insidia e Alex si chiude. Apparentemente fila tutto liscio: riceve premi, si allena, va in vacanza con la fidanzata pattinatrice olimpica, riprende a gareggiare anche se con risultati non entusiasmanti. E dentro si scatena la depressione. È sempre un inferno privato quello a cui ci condanniamo: i pensieri dominano e corrono sinuosi, Alex sa che l’accesso alla vittoria è possibile anche per la via del doping: ci sono decine di atleti che ne fanno uso e che raramente vengono trovati, il dopato non è quello che si dopa, è quello che viene beccato. Alex vive tutta l’ingiustizia rabbiosa di chi per vincere è obbligato a fare miracoli mentre altri hanno una facile scorciatoia e allora, nel culmine dell’ossessione, si butta vorace nelle braccia dell’Epo: si procura le sostanze dopanti e ne fa uso sistematico, poi semplicemente viene scoperto e denunciato.
Lo scandalo è enorme, tutti gridano vergogna. E Alex cosa fa?
Non è il primo atleta dopato ad essere scoperto, ma tutti in questi casi scompaiono nel nulla: sanno bene che dopo qualche tempo il clamore del disgusto scema. Lui no. Il giorno dopo che la notizia esplode, Alex esce allo scoperto: è il primo atleta dopato della storia che – piangendo davanti a centinaia di giornalisti scatenati – dice: “cerco di essere sincero, ho fatto un grosso errore. E sono molto dispiaciuto. E sono anche contento che sia tutto finito”.
Perché arrivare fino a qui, Alex? Perché non dileguarsi davanti al mondo che sbava rabbia?
Perché sei un uomo vero e sai che la finzione ti stava uccidendo, che il tranello di cercare di essere quello che il mondo ti impone è una tortura che ti toglie il fiato. E soprattutto sai che quello che ti ha fatto cadere e poi rotolare senza fine, è stato chiuderti e rimanere prigioniero impotente di pensieri capaci di demolirti. Si risorge quando si rompe l’accerchiamento della solitudine e si esce allo scoperto, si riprende a guardare le cose per come sono e si riprende a dire chi sei senza paura: uno che cammina e corre e inciampa e si fa male e si rialza. Ma non più solo. Da solo resti a terra.
La storia di Alex da quell’agosto assolato in cui ha confessato il suo sbaglio è andata avanti in mille tentativi che si sono scontrati con le congiure di un sistema ipocrita che, ad oggi, lo ha allontanato troppo ingiustamente, ma Alex cammina con coraggio e non ha paura delle ombre che si agitavano nei pensieri, è un uomo impressionantemente felice.
C’è una pagina perfetta in questa storia ed è il momento in cui Alex, nel tardo pomeriggio del 6 agosto 2012, prima che il mondo intero venga a sapere della sua positività chiama i genitori. “Mia madre era sconvolta. Singhiozzava come me. Pepi (il papà) invece era fuori di sé, una belva”. E qui viene il nocciolo della questione: “non mi ha chiesto perché l’avessi fatto. Nessuno dei due me l’ha mai chiesto né quel giorno, né dopo. Piuttosto, mi ha chiesto perché non avessi cercato il suo aiuto, questo sì. Perché non gliene avessi parlato”.
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