C’è una costante, dopo ogni tornata elettorale: l’affastellarsi delle analisi produce facilmente nuove “verità” sull’esito del voto. Le interpretazioni predominano sui dati veri – i numeri – e li deformano. Giovanni Orsina, storico e politologo, è ordinario di storia contemporanea alla Luiss di Roma. Con lui il Sussidiario ha affrontato la questione principale, quella dei “vincitori” delle elezioni regionali. Sul referendum infatti non ci sono dubbi. Ma alla vittoria pentastellata del Sì bisogna anche aggiungere la loro sconfitta nelle regioni: un risultato che finisce per delegittimare politicamente l’attuale parlamento. Non meno di quanto abbia fatto il partito di Grillo e Casaleggio.



Professor Orsina, chi sono i vincitori e chi sono i vinti?

Quasi tutti hanno qualche ragione per esultare e qualche ragione per non farlo. Tralasciando le attese della vigilia, che non sono un dato politico, il grande sconfitto è Renzi. In Toscana la sua coalizione ha vinto, ma la vittoria ha premiato il Pd.

Il Movimento 5 Stelle?



Anche M5s dovrebbe essere tra gli sconfitti, e in parte lo è, perché ha perduto una enorme quantità di voti. Nell’unica regione dove ha fatto l’accordo col Pd, la Liguria, il candidato (Ferruccio Sansa, ndr) è stato sconfitto.

Però M5s ha vinto il referendum.

Esattamente. E qui cominciano i problemi. Nonostante le apparenze, M5s è un partito molto complesso, con all’origine varie anime differenti. Sono almeno tre. La prima è di sinistra, movimentista e radicale. Vi vanno ricondotte la decrescita felice e più in generale l’idea che la società di massa finisce nelle mani delle oligarchie e i piccoli devono difendersi. Questo è un sentimento maggioritario nel M5s delle origini, che lo declinò a sinistra.



La seconda anima?

È quella che si è espressa nella democrazia diretta, che l’ingresso in parlamento e le vicissitudini di “Rousseau” hanno pian piano smentito. Doveva essere il modo di ridare voce ai piccoli contro i grandi, ma si è rivelata impossibile. Però vive sulla crisi della democrazia rappresentativa, che è reale.

E la terza anima?

Coincide con l’elemento principale che ha fatto la fortuna di M5s: l’opposizione alla casta. Va dalla critica al Pd-meno-elle (Pd e Pdl, ndr) al taglio dei parlamentari.

Conclusione?

Questi tre elementi, che hanno fatto la fortuna di M5s e sui quali M5s ha vissuto per due elezioni politiche, spiegano molto del momento in cui ci troviamo. Non dimentichiamo quello che succede nella legislatura 2013-2018.

Che cosa intende?

Gli anni di Renzi sono uno snodo fondamentale. L’ex premier è il primo tentativo serio di affrontare i 5 Stelle, ma la risposta è inefficace. Con Renzi il partito dell’establishment, il Pd, si dota – o viene dotato – di un leader “parapopulista”. Il tentativo è quello di curare la malattia M5s con una cura omeopatica che usa i suoi metodi, comunicativo e non solo.

Non ha funzionato.

No, infatti. Gli italiani hanno annusato la falsità dell’operazione, culminata nel dicembre 2016 con la bocciatura della riforma costituzionale. E hanno detto no.

E così entriamo in questa legislatura. Siamo alle politiche del 2018.

Ci sono tre snodi fondamentali. Il primo: M5s va al governo, molti parlamentari sono al secondo mandato. Gli anti-politici diventano politici e occupano poltrone su poltrone. Usare la vecchia retorica diventa difficile.

Il secondo elemento?

È la Lega. Salvini non è, come Renzi, la mascheratura populista di un partito di establishment. Il suo è un partito populista vero, euro-critico, con un’identità forte e un tema politico altrettanto forte, il no all’immigrazione fuori controllo. M5s fa fatica e alle europee 2019 perde la metà dei voti.

Ed è allora che torna al governo con il Pd. È questo il terzo passaggio?

Sì, con una premessa. In alleanza con la Lega, M5s manteneva la propria identità anti-sistema. Ma al prezzo di premiare la Lega in termini di consenso, perché Salvini aveva un’identità più forte.

Allora qual è la svolta?

Il momento in cui alcuni 5 Stelle, con la regia di Conte, in asse probabilmente con il Quirinale, hanno deciso il passo. L’alleanza con il Pd, partito del potere per eccellenza, passa per l’Europa, con la decisione di appoggiare la Commissione von der Leyen prima e il Conte 2 poi. A quel punto il discorso anti-sistema diventa insostenibile. Ma il percorso è travagliato.

In che senso?

Una parte di M5s continua a resistere alle conseguenze di questa scelta: il no al Mes, il no all’alleanza con il Pd tranne che in Liguria, gli scontri interni.

Lo sfaldamento è inevitabile? È un tema importante: come può tenere il patto di governo se un alleato non c’è più?

Attenzione, in parlamento c’è eccome: ha il 33%. Ma la politica ha perduto gran parte della sua logica e ciò che sopravvive alle contraddizioni sono delle molto umane ambizioni personali.

Tiriamo le somme.

Siamo seri: se io penso che tagliare i parlamentari faccia bene alla politica e al paese, e il popolo italiano dice sì, la sera stessa chiedo lo scioglimento delle camere.

Invece la legislatura è salva: non si vota. Il Quirinale si è premunito di dirlo in agosto, con ampio anticipo sulle urne, attraverso un pezzo di Ugo Magri sulla Stampa. Non c’è un problema di legittimità politica?

Abbiamo un parlamento in termini di rappresentanza ormai molto distante dal paese. Non lo dice tanto il Sì al referendum, quanto il risultato delle regionali. Indubbiamente il problema politico c’è.

E dove ci porta?

Al fatto che il rapporto delle istituzioni con l’opinione pubblica è sempre più fragile, provvisorio. La cosa singolare è che torniamo alla parte in cui Casaleggio e M5s avevano ragione: la rappresentanza è in crisi. La volubilità dell’opinione pubblica è diventata rapidissima, ed è costantemente registrata da comunali, regionali, europee, sondaggi. Votiamo per un parlamento che un anno dopo rischia di essere già vecchio.

Quindi?

Il capo dello Stato non ha torto. Se questa è la situazione, sciogliamo il parlamento ogni anno? Lo iato tra istituzioni e popolo appare inevitabile. Viviamo in un contesto democratico molto, molto imperfetto.

Non si può fare a meno di sottolineare un’altra contraddizione: anche le massime istituzioni alimentano l’antipolitica.

Certo. Da due anni il vertice politico del paese è un presidente del Consiglio mai eletto, capo di un governo nato da un patto tra un partito sconfitto alle politiche nel 2018 e un altro partito sconfitto alle europee nel 2019. Se tutto questo non configura un clamoroso problema di democrazia come corrispondenza tra opinione pubblica e istituzioni…

Il potere delle regioni è destinato a indebolire la coesione del paese?

È un rischio reale. Innanzitutto perché i presidenti hanno una legittimazione elettorale molto forte. Nelle regioni è rimasto un sistema di alternanza che a livello nazionale abbiamo perduto. Il fatto è che agli italiani non dispiace potere eleggere direttamente il vertice dell’esecutivo. E poi a questo si salda il tema della questione settentrionale, che oggi si chiama autonomia rafforzata.

È destinato a tornare in agenda?

Sì, anche perché le regioni del Nord sono contributori netti del bilancio nazionale.

Il centrodestra dopo questa tornata elettorale?

Dimostra di avere un suo popolo che arriva al 50%. Non è poco in una democrazia con molti problemi. Però la destra, a differenza dell’establishment, non ha garantito l’accesso alle istituzioni. E questo inevitabilmente rimbalza da un lato sulla capacità dei partiti di destra di raccogliere voti e utilizzarli, e dall’altro sull’opinione pubblica.

In altri termini, io voto ma il mio voto non conta.

Se l’elettore di centrodestra continua a votare per una classe politica che non riesce a “scaricare a terra” il suo voto andando al governo, magari non vota a sinistra, ma a quel punto si astiene.

Nel centrodestra c’è un leader naturale?

Per il momento è Salvini. Il problema di Salvini è che deve imparare ad essere leader della coalizione, come ha detto Toti. Il popolo della destra c’è, ma l’ondata del Salvini di un anno fa è finita.

Per quale motivo?

Per un errore di strategia. L’idea che le istituzioni le conquisti mettendo insieme un consenso popolare talmente forte da rompere i muri di Versailles e occupare il Salone degli specchi, non funziona.

E per quale motivo non potrebbe funzionare?

Perché il Salone degli specchi è molto ben presidiato. Non solo dall’establishment italiano, ma anche da quello europeo. Sono molto robusti e coriacei.

Zingaretti ha vinto?

Può dire a ragione di aver avuto successo. Detto questo, la sua vittoria ha fattori territoriali molto forti, sia nel contesto toscano sia in quello meridionale. In Toscana il contesto locale tiene anche se è molto logoro, non ha più nulla a che vedere con i fasti di un tempo.

E al Sud?

Al Sud governano dei “Comandanti”, degli Achille Lauro che per vincere hanno tirato dentro di tutto. In tanti casi, altro che sinistra…

Il governo è solido?

Sarebbe sopravvissuto anche al 5-1, figuriamoci al 3-3. Dal punto di vista di chi lo sostiene, tutte le alternative sono peggiori. E poi c’è da eleggere il presidente della Repubblica e da spendere una montagna di soldi europei, no?

(Federico Ferraù)