Il dibattito politico italiano, dopo il voto parlamentare su Ursula von der Leyen, è incentrato tutto sul voto di FdI al Parlamento europeo, asserendo che è prevalso l’interesse di parte sull’interesse nazionale e che questo comporterà quasi certamente che l’Italia non avrà un commissario di peso nell’ambito della nuova compagine della Commissione europea. Per contro, si afferma che, a prescindere dal voto parlamentare, all’Italia spetterebbe comunque un commissario con un portafoglio importante e con la posizione di vicepresidente, dato il peso politico ed economico dell’Italia: Stato fondatore, terza economia europea e, aggiungerei, ormai da tempo contribuente netto, anche se con il PNRR siamo stati i maggiori beneficiati.
In realtà, non è tutto così scontato, né in un senso, né nell’altro, e ciò perché la logica delle istituzioni europee non corrisponde a quella tipica delle istituzioni statuali.
Innanzitutto, il disegno istituzionale europeo risente ancora molto dei modi del diritto internazionale; ne sono testimonianza il ruolo e il peso delle procedure intergovernative, tutte incentrate sul Consiglio europeo. Inoltre, il Parlamento europeo, nonostante il nome, non è ancora in grado di svolgere tutte le prerogative tipicamente parlamentari, come la determinazione della legge elettorale, il potere di iniziativa legislativa e una distribuzione dei seggi tra gli Stati membri di carattere prettamente proporzionale. Infine, la procedura di formazione della Commissione europea appare alquanto incerta, perché resta sospesa tra le forme internazionali e le procedure del sistema di governo parlamentare. La stessa Commissione siamo abituati a considerarla una sorta di governo dell’Unione, mentre in realtà i trattati europei la disegnano ancora come un’Alta autorità garante dei trattati medesimi.
Con riferimento alla formazione della Commissione, poi, come noto, l’indicazione del Presidente della Commissione proviene dal Consiglio europeo, che tiene conto dei risultati delle elezioni europee; essa, perciò, si configura come una scelta dei capi di Stato e di governo degli Stati membri dell’Unione e non come una scelta di ordine più prettamente parlamentare; in essa prevale la frammentazione propria di un’organizzazione internazionale regionale composta da più Stati. Solo a questo punto si innesta una procedura più propriamente parlamentare, con il voto sull’indicazione del Consiglio europeo da parte del Parlamento europeo che conferisce in effetti il mandato di presidente della Commissione.
Anche nella formazione della Commissione, e cioè nella scelta dei singoli commissari, sono presenti sia la logica intergovernativa, sia quella parlamentare. Il Trattato sull’Unione Europea prevede che la Commissione sia composta, in via ordinaria, da un numero di componenti pari ai due terzi del numero degli Stati membri, salvo che il Consiglio europeo non disponga, deliberando all’unanimità, di aumentare tale numero, cosa che è accaduta sempre, portando i componenti della Commissione ad un numero pari a quello degli Stati membri, di modo che ciascuno di questi possa aver attribuito un commissario.
Quanto alla nomina dei commissari, questi sono designati dal Consiglio europeo di comune accordo con il Presidente eletto e sono sottoposti collettivamente ad un voto di approvazione del Parlamento europeo. Come si vede, la prima parte della designazione è sottoposta a una negoziazione tra i capi di Stato e di governo; mentre la seconda parte prevede l’audizione dei singoli candidati commissari davanti alle competenti commissioni parlamentari, e solo dopo che queste hanno dato il loro parere favorevole si procede al voto di approvazione della Commissione nel suo insieme in Assemblea.
Ovviamente, il procedimento di formazione della Commissione presenta profonde ambiguità, come del resto l’intero disegno istituzionale europeo. È difficile, da questo punto di vista, valutare se il profilo intergovernativo sia prevalente su quello parlamentare, oppure se non sia l’opposto.
Nel primo caso l’Italia non avrebbe da temere alcunché, essendo nella disponibilità del governo nazionale l’indicazione del possibile candidato alla Commissione europea. Certamente il conferimento di un portafoglio resta nell’ambito della negoziazione all’interno del Consiglio europeo, ad essa partecipano tanto gli altri governi degli Stati membri, quanto il Presidente della Commissione; e l’accettazione di un candidato, che viene così designato, fa parte di questa concertazione che conserva caratteristiche di tipo internazionalistico.
Diverso è invece il procedimento all’interno del Parlamento europeo, che è una vera e propria procedura parlamentare nella quale sono prevalenti le considerazioni di ordine politico, con riferimento alla maggioranza che si è formata nell’Assemblea parlamentare, e pertanto può anche accadere che un candidato voluto dal Consiglio su proposta di uno Stato membro possa non essere gradito al Parlamento europeo, o meglio alla maggioranza di questo, come accadde peraltro nel caso di Rocco Buttiglione.
Il governo italiano, pertanto, resta nelle sue piene prerogative nell’indicare il proprio commissario e non può la sua posizione essere pregiudicata dalla circostanza che la maggioranza interna abbia votato solo in parte a favore della Presidente della Commissione europea.
Questo è tanto più vero se si considera che a livello parlamentare la forza che trova il suo riferimento nella presidente Meloni ha già ottenuto una vicepresidenza del Parlamento, mentre il raggruppamento politico cui aderisce la Lega, quello dei Patrioti fondato da Orbán, è stato escluso da questa posizione.
Non va poi dimenticato che la posizione politica della presidente Meloni è profondamente diversa da quella sostenuta dai Patrioti, per ciò che riguarda la collocazione internazionale, il rapporto con la Russia di Putin, il conflitto in Ucraina, la Nato e la politica europea degli armamenti, nonché la posizione sulla difesa comune che è stata fatta propria anche dalla presidente von der Leyen.
Certamente l’ambiguità delle istituzioni europee dal punto di vista delle procedure può giocare a favore del governo italiano, ma sarebbe errato pensare che, ove la richiesta del Governo Meloni venisse accolta, ciò sia frutto esclusivamente del peso dell’Europa intergovernativa su quella parlamentare, perché indubbiamente molto di più contano le scelte compiute dal governo italiano e specificamente dalla Meloni sia con riferimento alla politica estera e sia con riferimento alla politica europea.
Infatti, pur partendo da posizione poco europeiste, con l’esperienza concreta del Consiglio europeo, del Consiglio e dei rapporti con la Commissione, la Meloni è riuscita a dare del proprio partito e di sé stessa una immagine europea più che accettabile dal punto di vista dell’evoluzione delle istituzioni europee; ne è prova l’abbandono di Vox del gruppo dei Conservatori per andare nel gruppo dei Patrioti, i quali ci tengono a mantenere un’immagine fortemente antieuropea.
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