C’è un aspetto della vicenda elettorale americana che è stato completamente ignorato dai media e dagli esperti e non se ne capisce il perché. Qualcosa che potrebbe toccare molto da vicino gli italiani dal momento che riguarda un campione della nostra terra negli States sia pure di seconda generazione. Qualcosa che rimanda alla trappola giudiziaria fatta scattare per mettere fuori gioco colui che appariva come il più probabile candidato democratico alla presidenza.
Stiamo parlando di Andrew Cuomo, figlio del tre volte governatore dello Stato di New York Mario (originario della provincia di Salerno) e a sua volta Governatore per due mandati costretto a dimettersi per vicende di molestie sessuali tirate fuori all’improvviso e risalenti a molti anni addietro. Parole ritenute sconvenienti rivolte a giovani collaboratrici nelle pause di una campagna elettorale, una mano posata sulla spalla, un abbraccio forse troppo caloroso.
Tutti comportamenti che all’epoca dei fatti non avevano sollevato obiezioni, né tantomeno provocato scandalo e che a distanza di tempo sono stati riportati a galla e giudicati con tutt’altro metro alimentando una campagna di denigrazione che ha portato alle dimissioni del politico nell’imbarazzante balbettio del suo partito, il democratico appunto, che per ragioni di “opportunità” invece che difenderlo in attesa di giudizio gli suggerì il passo indietro.
Come molte storie di analoga fattura anche questa è finita con il proscioglimento dell’imputato in tempi che i nostri tribunali si sognano, ma non così presto da evitare “l’inevitabile” calo di stima e reputazione da parte di un’opinione pubblica diligentemente orientata a indignarsi. Dunque, campo libero alla ricandidatura di Joe Biden che in mancanza di alternative credibili rivendicava la possibilità di farsi un secondo giro nelle stanze della Casa Bianca.
È finita come sappiamo. Con il frettoloso cambio di cavallo a competizione avviata attraverso una procedura che non poteva che premiare la sua vice Kamala Harris per pratiche ragioni di convenienza – superamento del vincolo delle primarie, possibilità di utilizzare i fondi raccolti per la campagna – che in tutta evidenza non hanno infiammato il popolo degli elettori. Insomma, una scelta quasi obbligata determinata da considerazioni di comodo.
Ciò non toglie nulla alla vittoria dell’antagonista Donald Trump che per la seconda volta, non consecutiva, conquista la poltrona più influente del mondo con un distacco superiore alle sue più rosee aspettative. Segno che in termini di autenticità gli elettori americani abbiano preferito il vecchio “pirata” tutto sudore e sangue alla giovane (relativamente) avversaria di carta decisa a tavolino. Con Andrew Cuomo costretto a stare in panchina.
Se vorrà tornare a giocare da titolare lo vedremo presto. In un partito, tuttavia, che esce a pezzi da questa competizione per una lunga serie di ragioni che si potrebbero sintetizzare in una clamorosa mancanza nella capacità di ascolto. La società – tutte le società – è molto più variegata e ricca di sfumature di come la si vede quando si scambiano le proprie convinzioni, i desideri, per la realtà. Empatia e sintonia sono stati d’animo che vanno coltivati.
All’Europa che guarda con preoccupazione al risultato d’Oltreoceano arrivano almeno un paio di raccomandazioni: attenzione alle troppe regole distillate in laboratori che non tengono conto della vita vissuta, attenzione a non esagerare con l’irresponsabile comportamento di chi si ostina a rimandare la costruzione di una vera entità federale in grado di preservare la libertà e l’autonomia di tutti. La nuova vittoria di Trump, in fondo, potrebbe essere lo schiaffo che ci sveglia.
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