La crisi di governo dei giorni scorsi suggerisce alcune considerazioni sullo stato delle nostre istituzioni, anche se non è facile distillarle da sentimenti e da opzioni politiche o, più banalmente, dall’incertezza che consegue alla fine un governo.
La crisi ha portato a maturazione tutte le pecche del nostro sistema parlamentare, da noi “razionalizzato” (per evitare gli eccessi del parlamentarismo) per tramite della figura del Presidente della Repubblica, che ha potere di nominare il governo e sciogliere le Camere, essendo però condizionato in queste sue scelte dallo stato del sistema politico. A differenza dei sistemi presidenziali, il parlamentarismo, come del resto la democrazia, ha meccanismi sostanzialmente fragili, legati come sono ad almeno tre condizioni.
La prima è l’esistenza di un sistema di partiti tendenzialmente omogeneo, diverso negli interessi e nei valori ma capace di confluire, tramite la dialettica maggioranza/opposizione, verso l’obiettivo comune di conservare e far funzionare le istituzioni.
La seconda condizione è che vi siano formule elettorali orientate a combattere la dispersione dei voti (si pensi alle clausole di sbarramento o alla dimensione delle circoscrizioni elettorali).
La terza è la catena di legittimazione democratica incentrata sul voto di fiducia, fiducia che, ricordiamolo, per Costituzione, è conferita a maggioranza “semplice” ed è quindi lontanissima dalla “fiducia costruttiva” che dà solidità al sistema parlamentare tedesco (insieme ad altri fattori, che qui non è il caso di ricordare).
Si tratta di un complesso gioco di equilibri cui si aggiunge, in altri Paesi, un impianto costituzionale capace di fare da contenitore solidificante ai fattori, fluidi, sopra enunciati.
Per le complesse condizioni politiche sotto gli occhi di tutti, il sistema non ha funzionato ed è da tempo che non funziona: la centralità del Parlamento è sfumata per la sua sostanziale incapacità ad assolvere ai propri compiti, incapacità che dipende dalle forze politiche in campo, nessuna esclusa. L’asse si è così spostato sul governo e, poi – con un passaggio che segna una potente discontinuità istituzionale – dal governo politico al governo tecnico, di recente divenuto “governo dei presidenti”, o governo “senza formula politica”, o “governo di unità nazionale”: tutte circonlocuzioni scarsamente fondate su un “concreto”, cioè il consenso della maggioranza parlamentare capace di sostenere il programma di governo che essa stessa ha approvato e che dovrebbe riflettere, almeno pallidamente, il mandato ricevuto dagli elettori. Il sistema non è, dunque, presidenziale né può diventarlo per passaggi successivi, a prescindere da scelte costituzionali, indipendentemente da come lo abbiano letto gli attori.
In particolare, la cosiddetta “unità nazionale”, che può essere generata da situazioni di emergenza, con la sospensione temporanea dei normali meccanismi istituzionali, non funziona come meccanismo normale di governo perché, prima o poi, gli attori politici che sostengono il governo riprendono il sopravvento. Basta una parola di troppo, un sospetto sulla tenuta dell’unità, un conflitto di interessi su cui non si è voluto o potuto mediare, una defezione singola che fa venir meno la facciata dell’unità, uno o tanti voti contrari che costringono il Governo ad usare il voto di fiducia come sostituto del voto parlamentare convinto e condiviso, e il castello di carta dell’unità si disintegra. Dunque l’“unità nazionale” come succedaneo del mandato popolare non funziona, visto che, ad ogni passo, il Parlamento è chiamato ad intervenire, esercitando il suo mandato, di cui è chiamato, lui sì, unico, a rispondere davanti al popolo sovrano, al popolo dei votanti.
Alla fine Ciampi, Dini, Monti e – ancora una volta – Mario Draghi hanno sperimentato questo dramma, che però è anche l’unico che fa di una democrazia un sistema degno di considerazione. È una lezione che, forse, non avremmo voluto imparare, ma che qualcosa deve pur dire: forse che se un sistema non funziona, o lo si cambia, o – se si crede che presenti del buono – si deve provare a rafforzarlo. Gli strumenti ci sarebbero ma non è il caso di elencarli qui.
Oggi, infatti, è chiaro che la crisi è un problema istituzionale ma non solo: c’è ben altro e ben prima, c’è il fattore umano, che gioca sempre il suo ruolo nella storia. Non a caso stiamo affogando in dietrologie, alla ricerca del colpevole, di chi ha scagliato la prima pietra, su cui scaricare la responsabilità invece che assumersene la propria parte. È il riflesso ultimo, forse degenerato, ma di un sussulto di consapevolezza, alla fine, sano: qualcuno porta la responsabilità delle cose, della storia e della politica. Di responsabilità dunque si tratta. Si lascino da parte le dietrologie e si ricominci dall’assunzione di responsabilità, personale e politica, se non si vuole trasformare il 25 settembre nell’omonimo 8.
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