La politica di bilancio per il 2025 ha superato l’esame dei mercati, molto probabilmente supererà quello dell’Unione europea. Si spera che superi anche l’ordalia parlamentare: scontato il no delle opposizioni, il vero rischio viene dai mal di pancia della maggioranza con Lega e Forza Italia che manifestano già la i loro turbamenti. Le prossime settimane diranno se verrà respinto l’ennesimo assalto alla diligenza. Intanto, la prudenza è stata riconosciuta e premiata dalle agenzie di rating. Standard & Poor’s ha confermato le tre B con outlook stabile. Fitch è più di manica larga perché aumenta la sua previsione da stabile a positiva. Ricordiamo i loro giudizi.



“Le prospettive di crescita sono rosee”, annotano gli analisti di S&P, secondo i quali l’economia crescerà di circa un punto percentuale fra il 2024 e il 2025, rispetto allo 0,2% del decennio precedente la pandemia. L’agenzia, però, punta il dito contro il debito pubblico troppo elevato. La sfida del Paese è alleggerire quella zavorra. “Al 135% del Pil nel 2024, il debito italiano è fra i più alti” e si muove verso il 138% nel 2027. “Questo è preoccupante perché – avvertono i tecnici di Standard and Poor’s – limita la capacità del Governo di effettuare investimenti a sostegno della crescita”.



Per Fitch la crescita potenziale è più solida. L’Italia ha un “piano fiscale credibile” e una “situazione politica stabile” che, se continuerà, “sosterrà il consolidamento di bilancio. La credibilità di bilancio dell’Italia è aumentata e il budget 2025 mette in evidenza l’impegno del Governo alle regole fiscali dell’Ue”. Il rimando alle nuove norme dell’Unione europea è importante, anche in vista della valutazione di Bruxelles. Gli analisti di Fitch ritengono che la politica di bilancio italiana sia in linea con il nuovo Patto di stabilità, e non è scontato, non solo per le fibrillazioni che hanno preceduto la nuova legge per il 2025, ma anche in relazione a quel che accade negli altri due grandi Paesi.



La Germania ancora in recessione sembra orientata chiedere più tempo. Debito e deficit rispettano i parametri (rispettivamente con il 64% e il 2% del Pil), il Governo tedesco è stato austero, persino troppo e l’ossessione di mantenere in attivo o in pareggio il bilancio pubblico nell’ultimo decennio è entrata in conflitto con una doppia crisi, congiunturale e strutturale, che sta rimettendo in discussione le basi stesse del Modell Deutschland. Il Cancelliere Olaf Scholz ha già stanziato ingenti sostegni all’industria e all’economia, ha aumentato le spese per la difesa, ma si rende conto che non basterà. La riforma del Patto ha mancato, anche per l’opposizione tedesca, la più importante delle innovazioni: distinguere tra spesa corrente e spesa per investimenti e, in questo ambito, separare sia gli investimenti, sia la spesa sociale collegata alla riconversione industriale e ai nuovi impegni militari.

A questo punto lo stesso Cancelliere si vede costretto, secondo fonti del ministero delle Finanze, a chiedere che l’aggiustamento avvenga in sette anni, come per l’Italia e come chiede anche la Francia. Il documento, secondo le anticipazioni, mostra che la più grande economia europea dovrà limitare la crescita della spesa netta al 2,25% annuo nel 2025, in calo rispetto al 3,75% di quest’anno. La bozza del piano prevede che il rapporto debito/Pil aumenterà leggermente, dal 62,9% dell’anno scorso a circa il 63,25% di quest’anno, e rimarrà a quel livello nel 2025.

La situazione francese appare la più critica. Il Primo ministro Michel Barnier ha presentato un piano che taglia la spesa per 40 miliardi di euro e aumenta le entrate di 20 miliardi, nonostante ciò ha dichiarato apertamente che il disavanzo pubblico non potrà scendere sotto il 5% né l’anno prossimo, né nel 2026. Ancor preoccupante è che il Governo non può contare all’Assemblea nazionale su una maggioranza in grado di far passare il suo bilancio. È già cominciata la gara a chi pronuncia il no più netto. Il problema della Francia non è solo il disavanzo, ma ormai anche il debito pubblico. In quantità ha superato i 3.300 miliardi di euro, in rapporto al Pil è arrivato al 116%: “Un debito colossale” lo ha definito il ministro dell’Economia Antoine Armand.

Nelle prime schermaglie parlamentari le tasse sono nel mirino dei partiti: la sinistra sostiene che sia troppo blando il contributo “temporaneo ed eccezionale” chiesto alle imprese con un fatturato annuo superiore al miliardo di euro e alle famiglie con oltre mezzo miliardo. La destra che finora si era dimostrata aperta al dialogo non potrà ingoiare tutta l’amara pillola. Persino nel partito macronista Ensemble pour la République stanno emergendo disaccordi ammessi dall’ex Primo ministro Gabriel Attal.

L’Italia appare avviata su un percorso a ostacoli, ma sono ben più superabili di quelli francesi e tedeschi. Restano aperti molti interrogativi. Il contributo delle banche è un prestito che andrà restituito nel 2026; Giorgia Meloni aveva dichiarato “niente più bonus” e, nonostante le sforbiciate, ce ne sono ancora parecchi (per i nuovi nati, per i mobili e gli elettrodomestici, per i nuovi assunti, per le ristrutturazioni al 50%), la spending review è lasciata ai singoli Ministeri, insomma rimangono molte incertezze. Mentre i ritardi nell’attuazione del Pnrr gettano un’ombra sul concreto contributo alla crescita da parte degli investimenti finanziati dall’Ue.

L’agenzia Moody’s darà il suo voto il 22 novembre, allora probabilmente si saprà se il cauto Giorgetti avrà vinto la sua battaglia anche in Parlamento.

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