Giorgia Meloni non appare preoccupata dallo spread, che, seppur in discesa, pochi giorni dopo l’approvazione della Nadef resta vicino alla soglia dei 200 punti base. Tuttavia, il rendimento in crescita dei titoli di stato italiani, come ha spiegato il ministro dell’Economia e delle Finanze, Giancarlo Giorgetti, fa aumentare la spesa per interessi, togliendo spazio fiscale per altre misure. Secondo Gustavo Piga, professore di economia politica all’Università di Roma Tor Vergata, a riportare in crescita lo spread non è stata l’approvazione della Nadef con cui il deficit/Pil per il 2024 è stato fissato al 4,3% contro il 3,7% previsto nel Def di aprile.
Come mai, allora, lo spread è salito nei giorni scorsi?
Lo spread si sta riavvicinando ai livelli della prima metà del 2020, quando ancora non esisteva il Pnrr. È stato l’annuncio di questo Piano a generare nei mercati l’aspettativa che, tramite investimenti che portano crescita, l’Italia sarebbe stata più forte e stabile e a far, quindi, dimezzare lo spread nel secondo semestre del 2020. Oggi il differenziale tra Btp e Bund torna a salire perché gli investitori continuano a non vedere materializzarsi la crescita promessa dal Pnrr. Nella Nadef il Governo ha indicato una previsione sul Pil del 2024 pari al +1,2%: un livello incompatibile con le aspettative degli operatori economici, che si attendono, quindi, un debito/Pil in lieve aumento e non sostanzialmente stazionario come annunciato dall’Esecutivo. Il vero problema, pertanto, è la mancanza di crescita, che spiega anche perché il Governo si è arreso, per il 2023, a un’inevitabile minor austerità.
A che cosa si riferisce quando parla di minor austerità per il 2023?
Partendo da un deficit/Pil pari al 5,6% nel 2022, al netto della contabilizzazione del superbonus, il Governo anziché ridurlo per quest’anno al 4,5%, come previsto nel Def di aprile, ha deciso di arrivare al 5,3%, perché il Paese deve come minimo sopravvivere e c’è, quindi, bisogno di fare meno austerità rispetto al previsto. Tuttavia, nei dati relativi al 2024 vediamo già ripartire il circolo vizioso determinato dalla miopia di Ue e Italia: la prima continua a dire che il Patto di stabilità non è ancora ripartito, eppure chiede di fatto alla seconda di riportare il deficit sotto il 3% del Pil in tre anni, e quest’ultima accetta questa maggior austerità, anche se si trova in un momento di evidente difficoltà.
Professore, lei parla di maggior austerità per il 2024, ma a leggere i giornali, grazie alla Nadef ci sono 14 miliardi in più per la Legge di bilancio…
Lasciamo da parte i titoli dei giornali e guardiamo ai fatti: termineremo il 2023 con un deficit su Pil al 5,3% e ci impegniamo a chiudere il 2024 al 4,3%. Quindi non ci sono 14 miliardi in più, ma 20 in meno! Una previsione di crescita dell’1,2% non è compatibile con questi livelli di austerità. Ogni anno noiosamente si alimentano aspettative negative che incidono sulle scelte di investimento degli imprenditori.
A proposito di imprese. Di fronte al rialzo dello spread, Confindustria chiede più tagli alla spesa pubblica. Cosa ne pensa?
Che l’industria in questo modo si fa terribilmente del male. Probabilmente una parte delle imprese che era più bisognosa delle commesse che gli investimenti portano non esiste più, come le piccole imprese edili del Sud, quindi ormai la rappresentanza è in mano a grandi imprese che non hanno problemi e magari non percepiscono quanto sarebbe importante fare in modo che il Meridione non sia una zavorra per tutto il sistema italiano.
Sul ritorno dello spread ai livelli pre-Pnrr non incide anche la progressiva riduzione di acquisti di titoli di stato da parte della Bce?
È vero che in generale la mancanza di un supporto della Bce può incidere negativamente sullo spread, ma non basta a spiegare perché il nostro Paese sta peggiorando così tanto rispetto alla Grecia, che pure ha un debito/Pil più elevato del nostro. I mercati percepiscono, quindi, una problematica tutta italiana, legata al funzionamento del Pnrr. Non è la politica monetaria il problema, ma la politica fiscale europea e l’incapacità di qualità della politica fiscale italiana.
Come si può, allora, far scendere stabilmente lo spread?
Occorre una crescita in grado di abbattere lo spread e il debito/Pil. E la si può ottenere, a mio avviso, tramite un patto che si deve materializzare, un do ut des con cui, da un lato, si lascia all’Italia la possibilità di concentrarsi sugli investimenti pubblici senza obbligarla a una miope austerità e, dall’altro, il nostro Paese in cambio interviene per rimuovere ciò che sta clamorosamente bloccando il Pnrr: l’incapacità di spesa.
Con la Nadef vengono liberate risorse anche per la Pubblica amministrazione già dal 2023. È questa la strada giusta?
Nell’ultimo decennio la Pa è stata depauperata di dipendenti, salari e formazione: non bastano certo pochi miliardi per invertire la rotta. Bisogna arricchire di competenze e riqualificare il capitale umano. Occorre una vera spending review, che significa riqualificare il settore pubblico. Ci vorrà tempo, ma già un segnale di impegno in questa direzione potrebbe imprimere una svolta sui mercati. Sono convinto che la Meloni debba andare in Germania a stringere un patto con il partner meno ovvio, un Paese che ha anch’esso bisogno di flessibilità in un momento difficile quale quello che sta attraversando. Non deve, quindi, cercare alleanze in Francia o in Spagna.
Senza questo patto dove ci porterà il circolo vizioso dell’austerità che ha prima descritto?
Il 2024 sarà identico al 2023 con l’aggravante che si potrà restare in questo stato di stagnazione solo in mancanza di un grande shock. Altrimenti questa costruzione così fragile che stiamo mettendo in piedi cadrà come un castello di carte.
Guardando la situazione globale sembra che un grande shock sia effettivamente possibile.
Sì, considerando che nel 2024 ci sarà anche il passaggio delle presidenziali americane, che sembrano particolarmente complesse, direi che mai abbiamo attraversato un periodo così delicato e mai in un mondo così irrazionale ci sarebbe bisogno di un’Europa con un ruolo di intermediario potentissimo, molto più stabile e attenta al sociale di qualsiasi altra area del mondo. Eppure l’Europa non batte un colpo, perché incartata nelle sue beghe interne di condominio. Solo una crescita forte, unitaria di tutti i Paesi, potrebbe darci finalmente lo spazio per diventare veramente ascoltati nel mondo.
Eppure, pensando alle elezioni europee del prossimo anno, si intravvede una continuazione dello status quo o un ribaltamento con l’affermazione di partiti con posizioni cosiddette sovraniste o anti-europeiste. Non una bella prospettiva…
Da coloro che hanno la possibilità di continuare con politiche moderate ci si aspetterebbe perlomeno la dovuta attenzione all’enorme pericolo che si corre. Le politiche di questi anni, poco attente ai problemi della gente, hanno fomentato un’opposizione forte. Ci vorrebbe un cambiamento di questo politiche, mantenendole all’interno di un rispetto delle regole democratiche. Questo non lo si sta facendo e sembra non ci si accorga che si sta scherzando col fuoco.
(Lorenzo Torrisi)
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