La rivolta degli agricoltori in Italia, come in altri Paesi europei, ha riscosso i sostegni e le simpatie della maggioranza dell’opinione pubblica. Nell’immaginario collettivo gli agricoltori rappresentano coloro che si fanno carico con sudore e fatica di coltivare la terra e di produrre il cibo per il resto della popolazione, senza ricevere un adeguato compenso. L’opinione pubblica è composta anche dai consumatori che non si fanno scrupoli di beneficiare delle importazioni a basso costo di generi alimentari e di prodotti derivati e di sostenere nel contempo l’introduzione di provvedimenti per la riduzione dell’utilizzo dei pesticidi, dei fitofarmaci e dei combustibili fossili. Cioè di una parte significativa delle misure che vengono contestate dai promotori delle manifestazioni di protesta.
Queste contraddizioni non sono dissimili a quanto sta avvenendo in altri comparti delle attività economiche: l’automobile, la produzione di acciaio, il riciclo delle materie prime, gli accordi commerciali per aprire l’accesso ai mercati dei Paesi sviluppati ai prodotti agricoli dei Paesi in via di sviluppo. Per citare alcuni esempi che possono avere un impatto tutt’altro che marginale per migliaia di aziende e di economie territoriali.
In generale, l’impatto delle nuove tecnologie e le dinamiche della competizione internazionale comportano un riposizionamento degli asset produttivi. Stimolano l’opportunità di sviluppare nuove produzioni e/o il ridimensionamento di quelle esistenti con il relativo corollario dei costi sociali derivanti dalla riduzione dei margini di guadagno per le imprese e i lavoratori e dalla perdita di posti di lavoro. Questa evoluzione è in atto da anni, ma l’impatto pervasivo delle applicazioni delle nuove tecnologie digitali e i rischi connessi alle tensioni geopolitiche contribuiscono ad aumentare l’intensità dei cambiamenti e l’incertezza degli esiti.
È in questo contesto che devono essere ponderate le scelte politiche che orientano il raggiungimento degli obiettivi della sostenibilità ambientale degli asset produttivi. In un certo senso la protesta degli agricoltori, anche per la risonanza che ha sollecitato negli ambiti sovranazionali e per la retromarcia operata dalle istituzioni europee e dai Governi nazionali su alcuni dei provvedimenti adottati, consente di apprendere alcune lezioni che possono essere utili per migliorare l’efficacia delle scelte delle politiche economiche.
In prima istanza diventa necessario ponderare in modo più realistico, e con un approccio olistico che tenga conto delle effettive implicazioni delle scelte sul piano sovranazionale, territoriale e sociale, le innovazioni normative che vengono introdotte per tale scopo. Non ha molto senso esasperare i tempi di attuazione mettendo a soqquadro interi apparati produttivi, ad esempio la produzione di automobili con motori termici più evoluti e vendute a prezzi ragionevoli, per diventare dipendenti dalle batterie elettriche prodotte dall’industria cinese con l’utilizzo massivo delle energie fossili. Questo vale anche per le produzioni agricole importate che utilizzano pesticidi, fitofarmaci e quant’altro, che risultano giustamente vietati per i nostri produttori.
L’apertura dei mercati internazionali e l’applicazione delle nuove tecnologie digitali generano vincitori e vittime anche nell’ambito dei nostri territori. In generale, i vantaggi complessivi dell’apertura dei commerci internazionali risultano superiori ai costi sociali che ne derivano. Numeri alla mano, questo risulta vero anche per le esportazioni agricole e industriali del made in Italy, grazie anche alle materie prime e ai semilavorati importati che sono parte integrante dei prodotti finali. Ma a far rumore è la quota degli imprenditori e dei lavoratori che risultano svantaggiati nel confronto competitivo. Reazioni simili a quelle dei piccoli coltivatori le abbiamo osservate anche nell’occasione delle chiusure degli impianti industriali di aziende multinazionali nel territorio italiano.
La reazione spontanea delle istituzioni nazionali e delle associazioni di rappresentanza dei lavoratori si concentra sulla richiesta di introdurre nuove norme che comportano vincoli per i comportamenti delle imprese che investono nel nostro territorio e di aumentare i sostegni statali per rendere sostenibili le attività produttive nazionali. Interventi animati da buone intenzioni ma che comportano nei fatti un aumento dei costi e una riduzione della capacità di attrazione di nuovi investimenti.
Il tratto caratteristico delle politiche europee messe in campo negli anni recenti per favorire la transizione ambientale e digitale dell’economia è l’inedita produzione di regolamenti che esasperano i vincoli temporali per il raggiungimento degli obiettivi e i costi degli investimenti per le imprese e per i cittadini, scaricando sugli Stati nazionali l’onere di gestire le conseguenze.
Questa contraddizione comporta un aumento dei conflitti di interesse tra gli Stati dell’Ue e contribuisce ad accentuare la crisi dei corpi intermedi, in particolare del ruolo delle associazioni di rappresentanza del mondo del lavoro. La capacità di conciliare le ristrutturazioni produttive con la riduzione dei costi sociali per le persone coinvolte è una componente essenziale del ruolo dei corpi intermedi. La disinvoltura che caratterizza i comportamenti delle forze politiche nel sostenere i regolamenti europei, e di cavalcare le proteste quando devono essere attuati, non agevola certamente il compito delle rappresentanze del mondo del lavoro. Sono atteggiamenti irresponsabili che disorientano l’opinione pubblica e aumentano il grado di sfiducia verso le istituzioni. Durante le proteste degli agricoltori non hanno consentito nemmeno di valorizzare lo straordinario aumento delle risorse europee del Pnrr, circa tre miliardi di euro aggiuntivi, per sostenere gli investimenti delle aziende del settore.
Da un’attenta lettura dell’insieme queste vicende possono scaturire alcuni suggerimenti per aumentare l’efficacia delle politiche economiche finalizzate a gestire la transizione ambientale e digitale. Il primo riguarda l’esigenza di ponderare ogni singolo intervento valutando le ricadute sugli asset produttivi, sulla competitività delle imprese e in relazione alla sostenibilità dei costi economici per le imprese e per i cittadini. La criticità delle relazioni geopolitiche non lascia alcun spazio agli approcci semplicistici, alla Greta Thunberg, che hanno dominato la scena politica e i comportamenti dell’opinione pubblica nella seconda decade degli anni 2000.
La relazione virtuosa tra i potenziali benefici delle innovazioni tecnologiche in termini di sostenibilità ambientale e di crescita della produttività e le condizioni di lavoro e di reddito delle persone non è affatto scontata. I costi sociali devono essere attentamente ponderati e la loro sostenibilità economica deve essere assunta come parte integrante dei provvedimenti. Tutto ciò richiede un adeguamento della governance di queste politiche. Se le Istituzioni europee vogliono avere un ruolo guida nel guidare i tempi e le modalità di realizzo degli obiettivi, devono assumere in prima persona anche il compito di mobilitare le risorse per garantire la loro attuazione. L’alternativa diventa quella, attualmente prevalente, di costringere gli Stati ad adottare politiche di contenimento dei costi e di competizione con gli altri Paesi europei per l’attrazione dei nuovi investimenti.
L’esigenza di potenziare il ruolo delle istituzioni europee non deve diventare un alibi per aggirare l’esigenza di rendere attrattivi i nostri territori. Una condizione che non è realizzabile senza una mobilitazione degli attori del mondo del lavoro da parte delle istituzioni e di una corrispondente assunzione di responsabilità delle associazioni di rappresentanza delle imprese e dei lavoratori.
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