Non ci resta che piangere (senza cipolle)? Le cipolle fanno piangere, lo sanno tutti. I più abili hanno stratagemmi per evitarlo, ma in questo caso sono inefficaci. Eh sì, perché basta che India ed Egitto decidano di bloccare le esportazioni e il mercato schizza, con la Cina (la stessa delle batterie elettriche e delle terre rare, nel senso di minerali per le batterie, non di campi) che aumenta i prezzi del 30%. E allora piangiamo tutti nel vedere le cipolle sopra a 2,5 euro al Kg, complici l’andamento climatico in perenne cambiamento, le speculazioni e una grande incertezza.
Allo scoppio della guerra in Ucraina, tutti abbiamo imparato, anche chi avesse ignorato i tg e non voleva vedere la tragedia della guerra in atto, che l’olio di girasole, e non solo, era da lì che veniva, con tanto di cartello nello scaffale vuoto che ce lo ricordava. Niente di nuovo, se già nell’800 i velieri napoletani andavano nel porto di Odessa a prendere il grano per i grandi pastifici partenopei. Poi c’è la natura, che in agricoltura ha sempre fatto un po’ da padrona, ma che ha sempre trovato generazioni geniali che hanno sfidato e convissuto, vinto e perso, costruito e disfatto, ma sempre andando avanti per migliorare tecniche, rese, prodotti, insomma vita e tante vite. È sempre stato così: dalle tribù nomadi, forse stanche, che si sono “fermate”, ai tempi di Gesù con i suoi esempi agronomici, dai monaci inventori e bonificatori, fino all’agricoltura 4.0 o di precisione.
Ma quella natura madre e matrigna ora non sembra essere più la stessa e oggettivamente, al di là del mainstream, dei complottismi e del percepito, non me la sento di aspettare altri 20 anni di statistiche per avere un giudizio certo e dire, che, “be’, effettivamente qualcosa sta cambiando”. Certo è che le proteste degli agricoltori in Europa hanno colpito tutti, non solo gli addetti ai lavori. Penso che ciò che muova chi legittimamente ritiene la protesta come l’unica uscita, sia la paura dell’ignoto, meglio del non-noto, dell’incertezza, a cui gli agricoltori sembravano vaccinati dalla storia dell’umanità, e da cui invece si sentono trascinati, come le acque melmose che hanno distrutto troppi campi.
Questo non noto, per chiudere in fretta il disagio della sfida, diventa presto nemico e deve avere un’immagine, un nome, un bersaglio concreto: chi c’è di più indifendibile che l’Unione Europea, che da anni, un po’ come la natura, ha fatto per l’agricoltura europea da madre e matrigna o, più genericamente, lo Stato, a cui si chiede, anche giustamente, di fare ancora di più (protezione, autorità, regole)? Il resto poi vien da sé, nel senso che non conta tutta la storia dell’Europa che, dopo carbone e acciaio, ha cercato di mettere insieme il mercato e primo fra tutti quello agricolo, per sostenere il reddito degli agricoltori, con politiche anche piene di errori di prospettiva enormi, ma sempre nell’agone, mediando, a fatica, lobbies, sindacati, ecc., anche grazie alla politica ed agli eletti. Ma questo non conta: serve decidere in fretta da che parte stare, nei 59” di attenzione del pubblico da catturare: con gli agricoltori (i deboli) o con l’UE (il potere dei cattivi).
Le generalizzazioni non aiutano, ci sono storie e attività diverse, come mille e mille sono le agricolture, europee e italiane, dall’appassionato vignaiolo di Castagneto Carducci al produttore di melograno e more di gelso di Alcamo o di zafferano dei Giovi nell’Appennino genovese all’allevatore di maiali del cuneese. Tutte agricolture che hanno trovato nel valore aggiunto e nel legame col territorio il modo di esistere e resistere. E ci sono agricolture più in crisi, a cui spesso i sindacati e la politica non sono stati capaci di dar voce, fatte anch’esse di persone e famiglie, più deboli nei confronti dei mercati internazionali, delle posizioni dominanti di industrie e grande distribuzione, settori che anch’essi hanno le loro esigenze (per avere la attuale produzione italiana di pasta fatta solo di grano italico, non basterebbe neanche coltivare a grano duro le aiuole degli autogrill e i terrazzi di casa!). Non è sufficiente nemmeno invocare la libertà di impresa, perché molte di queste aziende, nella libertà del mercato, sarebbero già morte da tempo ed è proprio questa libertà che alimenta la paura.
In fondo, in questa ingarbugliata vicenda, dietro un apparente dualismo, on/off, sì/no, a cui sembriamo addestrati e rassegnati, si nasconde il desiderio di qualcosa che non risponde ai meccanismi economici classici, che fin qui ci hanno “governato”. La cura del proprio territorio, in cui la propria azienda anche quella agricola vive e cresce, non può essere derubricata ad ambientalismo di Greta, e l’integralità dell’uomo, in rapporto con tutto ciò che sta attorno, non può essere un pensiero bello di un Papa che, sì, “ci ha scritto su un’enciclica e un’esortazione apostolica, però le regole del mondo sono un’altra cosa”, salvo poi citarlo per aforismi fuori contesto.
Qualcosa per essere ragionevole non deve escludere nulla, ripeteva don Giussani, coltivatore di cuori e menti aperte. Ricordo un incontro in un teatrino milanese, organizzato dalle donne di Coldiretti, negli anni 80. Io, universitario di agraria, rimasi incantanto dalla passione che emanava quell’uomo nel raccontare del gusto e della bellezza di una tavola, a partire da quella delle nozze di Cana. Oggi ragionevole può essere sinonimo di sostenibile, quando un’azione e un’attività umana agisce tenendo conto di tutti i fattori, anche quelli dell’ecosistema, tenendo conto delle esternalità positive e negative, non sempre perfettamente misurabili ma non per questo non importanti e concrete, almeno quanto il fatturato. E se lo spreco alimentare dai campi alla tavola è attorno al 30%, ovvero produciamo 100 per avere utili al consumo 70, cioè 30 lo coltiviamo per diventare rifiuto, agricolo, industriale o urbano (Coldiretti, giornata dello spreco alimentare, 4 febbraio 2024), possiamo almeno sperare che non sia più così e non dare per scontati gli effetti collaterali di un sistema che fa acqua da tutte le parti, tranne dove serve?
Forse le lobbies europee delle batterie e del Green Deal stanno spingendo verso una estremizzazione della politica europea, forse. Più certo e documentato, è lo storico e costante impegno di altri importanti settori (chimica e petrolchimica in testa), che non si capisce perché dovrebbero essere estranei ad ingerenze in senso opposto. Solo una simpatia, piena di speranza, per ciò che ci è stato dato può riportarci con i piedi per terra, ognuno giù dai nostri “trattori”, dalle nostre certezze che ci difendono da qualcosa che non conosciamo.
Una simpatia e una curiosità come quella gridata dal giovane Alfa che a Sanremo “Non so chi ha creato il mondo, ma so che era innamorato”. Questa semplicità può farci riscoprire gli strumenti per renderci più liberi e veri, nelle sfide che ci attendono, anche in politica.
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