Cassata la presunta trattativa Stato-mafia. Con una decisione di cui ancora non conosciamo le motivazioni, la Corte di cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza della Corte d’assise d’appello di Palermo nei confronti degli ex carabinieri dei Ros Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, riformulando la precedente assoluzione perché “il fatto non costituisce reato”, che presuppone la sussistenza di un fatto storico a cui non si riconosce valenza penale, nella diversa formula assolutoria “per non aver commesso il fatto” che comporta l’insussistenza del fatto storico oggetto dell’imputazione.
La Cassazione ha invece confermato la decisione di secondo grado nella parte in cui ha riconosciuto che negli anni 1992-1994 i vertici di Cosa nostra cercarono di condizionare con minacce i governi della Repubblica italiana, prospettando la prosecuzione dell’attività stragista se non fossero intervenute modifiche nel trattamento penitenziario per i condannati per reati di mafia ed altre misure in favore dell’associazione criminosa. Nei confronti di tutti gli imputati era stato contestato il reato di minaccia ad un corpo politico dello Stato che è stato riqualificato nella forma del tentativo, dichiarando così la prescrizione nei confronti di Bagarella e Cinà.
In sostanza, gli ufficiali dei carabinieri non avviarono nessun tentativo di accordo con l’ala più moderata dei mafiosi per far cessare le stragi volute da Riina. La minaccia al corpo politico dello Stato da parte della mafia ci fu, ma rimase un tentativo, poiché nessun appartenente allo Stato trattò.
In attesa di leggere le motivazioni, il vero dato, oltre alla conferma delle assoluzioni che i giudici di appello aveva pronunciato sovvertendo la sentenza di primo grado, è pertanto la completa bocciatura all’ipotesi accusatoria della trattativa. Trova quindi conferma ciò che da molte parti si è andato via via affermando, ovvero che la lotta alla mafia, soprattutto negli anni terribili delle stragi, necessitava non solo del coraggio, ma anche della competenza che purtroppo, senza generalizzazioni e qualunquismi, è venuta da parte di alcuni a mancare.
Dopo le infami stragi dell’estate 1992 ci fu un momento di gravissima crisi dello Stato: l’efficientissima macchina dell’antimafia forgiata da Caponnetto, Falcone e Borsellino non aveva più una vera guida. La procura di Palermo di allora era gravemente lacerata dai problemi interni, veleni, alcune opacità mai del tutto chiarite ancora oggi. Tristemente profetiche furono evidentemente le parole di Caponnetto: “È finito tutto”, pronunciate uscendo dall’obitorio dopo l’ultimo saluto a Paolo Borsellino.
In questo vuoto investigativo, solo in parte colmato dall’arrivo di Caselli nel giorno dell’arresto di Riina a gennaio 1993, il generale Mori assunse su di sé l’intera responsabilità dell’articolazione della risposta dello Stato, ma senza avviare alcuna trattativa oscena. D’altronde, gli ex Ros non hanno mai negato che ci sia stato un contatto preliminare tra loro e Ciancimino, cosa della quale la procura di Palermo fu avvisata. L’iniziativa di Mori perseguiva anche l’obiettivo di voler in qualche modo “reclutare” Ciancimino per entrare nel sistema degli appalti, che era stato messo sotto i riflettori proprio dai Ros attraverso la famosa informativa che doveva rappresentare il naturale prosieguo del maxiprocesso. Informativa poi inopinatamente inabissata.
Come riferisce la sua famiglia, adesso è arrivato il momento di concentrarsi sul “nido di vipere” di cui parlava Paolo Borsellino. Come abbiamo già scritto in occasione del deposito delle motivazioni della sentenza sul depistaggio della strage di via D’Amelio, è giunto il momento di capire perché non si volle guardare a quello che Borsellino voleva fare e alle terribili difficoltà che incontrò dentro la Procura di Palermo.
Se a causa del tempo trascorso non sarà più possibile arrivare ad un accertamento giudiziario dei fatti, resta il dovere di ricercare la verità storica, magari cercando di raggiungere l’accertamento di eventuali recenti depistaggi sul tema del difficile periodo di Borsellino in quella procura da cui, ricordiamolo, fu costretto a scappare Giovanni Falcone. Il legale della famiglia Borsellino ha giustamente ricordato come in tutti questi anni si sia sempre cercato di spiegare l’anomala accelerazione dell’esecuzione della strage di via D’Amelio facendo voli pindarici, prospettando in qualche modo che Borsellino avesse saputo di questa trattativa e che si fosse messo di mezzo ostacolandola; ipotesi che hanno prodotto il risultato di non guardare a ciò a cui egli stava lavorando e a ciò che stava accadendo all’interno della Procura.
Se questo scenario attiene al passato remoto, guardando al passato prossimo, non si può non ricordare che c’è chi ha costruito la propria intera carriera sul processo Stato-mafia, evidentemente in modo immeritato.
Spiace fare paragoni, ma non si può inoltre non ricordare come il maxiprocesso resse fino alla sentenza definitiva, mentre questo sulla presunta trattativa ha iniziato a perdere pezzi sin dal secondo grado, venendo del tutto sconfessato in Cassazione. Ma forse la differenza più significativa è un’altra: questo processo, a differenza del maxi, è stato celebrato fuori dalle aule di giustizia con l’ausilio della grancassa, con una straordinaria esposizione mediatica dei magistrati dell’accusa che sono stati continuativamente ospiti in numerose trasmissioni televisive. L’apoteosi dell’autoreferenzialità.
È forse il caso che su questo aspetto s operi un’autentica riflessione e si chiuda una certa stagione dell’antimafia. Come ha evidenziato Fiammetta Borsellino, colpisce che la maggior parte degli italiani conoscano questo processo mentre in pochissimi, quasi nessuno, conosce un processo come il “Borsellino quater”, che ha invece accertato il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana, evidentemente consumato con non poche responsabilità della magistratura inquirente oltre che giudicante.
Chissà se la Cassazione, confermando l’assoluzione ma per non avere commesso il fatto da parte degli ex ufficiali del Ros, silenzierà un certo modo di occuparsi di lotta alla mafia. Perché di certo la lotta a Cosa nostra deve continuare, ma nella speranza che essa sia affidata a professionalità di alto profilo che, come fatto dalla procura di Caltanissetta in questi ultimi anni, riescano a squarciare qualche velo, facendo emergere brandelli di verità sebbene inconfessabili.
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