Nel 2007 Giovanni Arrighi nel suo Adam Smith a Pechino sosteneva che il sostanziale fallimento della campagna americana in Iraq e Afghanistan aveva favorito l’ascesa della potenza cinese e che la “guerra al terrore” decisa dall’amministrazione Bush aveva un unico vero vincitore: Pechino.

Purtroppo la Cina di Xi Jinping è molto diversa da quella che si augurava Arrighi, che avrebbe dovuto esercitare un nuovo tipo di egemonia basata sulla naturale espansione del mercato e sul multipolarismo ispirato ai principi della conferenza di Bandung. Al netto dei commenti di natura impressionista che hanno seguito la presa di Kabul da parte dei talebani, la ritirata americana non coglie di sorpresa chi colloca le vicende afgane all’interno di un quadro strategico complessivo che ha la sua origine nella crisi economica del 2007-2008 e nelle pretese egemoniche della Cina di Xi.



Il progetto di “un nuovo ordine mondiale” garantito da un’unica superpotenza è tramontato ben prima dei recenti eventi afgani e dal punto di vista strettamente militare segue il fallimento della fase della privatizzazione della guerra postulato della dottrina Rumsfeld – che ha avuto come protagonisti contractors e compagnie militari private – e alla fine della “surge” del Generale David H. Petraeus, avviata nel 2007 e poi tramontata definitivamente con l’amministrazione Obama.



La “surge” prevedeva un incremento delle forze di terra, unico modo per vincere una guerra come quella afgana, ma dopo aver dato dei buoni risultati è stata abbandonata perché ritenuta troppo dispendiosa in termini di vite e di risorse. In definitiva, da almeno dieci anni era palese l’impossibilità di vincere la guerra, che invece si è rivelata essere un colossale affare da mille miliardi per le società vicine all’entourage di Bush figlio e Dick Cheney e per quello che un tempo veniva chiamato il complesso militare-industriale, che ha comunque fornito agli Stati Uniti il vantaggio strategico per i conflitti del futuro. L’immagine iconica degli elicotteri che precipitosamente hanno evacuato l’ambasciata di Kabul ha immediatamente evocato la fuga da Saigon alla fine della guerra del Vietnam, del resto abbiamo già scritto di un “Nixon Choc” per l’amministrazione Biden con una conseguente riconfigurazione del ruolo del dollaro e il corollario della ripresa dell’inflazione e maggiore attenzione alle questioni domestiche, ma la caduta di Kabul non segna la fine dell’impero americano, piuttosto una tappa inevitabile della trasformazione della sua vocazione imperiale, in  cui rinuncia ad esportare i propri valori all’estero e ad esercitare in modo tradizionale la propria egemonia.



La caduta di Kabul non è per gli Usa l’equivalente della battaglia di Adrianopoli del 378, l’evento traumatico che nella coscienza dei contemporanei instillò il senso di fine dell’impero romano, ma l’abbandono di una terra che non deve essere considerata provincia dell’impero, quanto un dispendioso avamposto di confine che ha assicurato per anni discreti vantaggi tattici. Il limes si è spostato e ora gli americani volgono la loro attenzione su scenari più importanti come l’Indo-Pacifico.

La caduta di Kabul non procurerà alla società americana una “nuova sindrome del Vietnam”; per la società americana gli eventi di Capitol Hill costituiscono un lutto ben più difficile da elaborare, mentre della guerra dell’Afghanistan, la più lunga della storia americana, rimarrà il ricordo di una guerra che gli americani hanno rinunciato a vincere già dal 2007. Non c’è bisogno di leggere La teoria del partigiano di Carl Schmitt per capire che un paese che manda a morire i propri giovani continuando a vivere la propria quotidianità disinteressandosi delle vicende belliche che si consumano lontano da casa, non può sconfiggere un nemico che in modo incrollabile e incurante del prezzo da pagare continua ad avere fede nel proprio credo. Del resto lasciamo con piacere agli esperti in campo militare l’onere di trovare una risposta al perché un esercito privo di aviazione durante la sua avanzata non sia stato sorpreso in campo aperto dalla migliore aviazione del mondo e come sia stato possibile a più di duemila miliziani dell’Isis raggiungere il teatro afgano.

I cantori del declino degli Usa, se colgono un dato fondamentale, ovvero il fatto che l’America non rappresenta più una potenza che può o vuole esercitare una vera egemonia su scala globale, ignorano la natura della transizione che la società americana sta attraversando, ovvero una radicale trasformazione fatta nel nome del conseguimento della piena occupazione e della cura delle ferite lasciate in eredità dalla presidenza Trump, ma che ha compiuto definitivamente il proprio “Pivot to Asia” e che sa su quali teatri ingaggiare il proprio rivale. D’altra parte può sembrare prematuro l’atteggiamento di chi rievoca il destino della “tomba degli imperi”, immaginando quindi una trappola afgana per la Cina chiamata a difendere la continuità del corridoio sino-pachistano che ha il suo sbocco strategico nel porto di Gwadar.

Se la strategia cinese nell’area si caratterizza per l’ambiguità di finanziare i talebani reprimendo, al contempo, in patria la popolazione musulmana degli uiguri nello Xinjiang, potrebbe non reggere alla lunga, e al momento risulta difficile immaginare che i cinesi si faranno invischiare direttamente nel teatro afgano. Risulta più plausibile il rischio che il caos afgano finisca per destabilizzare il Pakistan, l’unico vero alleato di Pechino, cosa che avrebbe conseguenze disastrose per la Cina.

L’Afghanistan è destinato a rimanere una terra contesa che difficilmente i talebani potranno controllare del tutto, l’emblema di una nuova fase in cui le due potenze eserciteranno un dominio rinunciando all’egemonia. Il paese simbolo di un’età del caos in cui alla centralità dell’Indo-Pacifico corrisponderà l’instabilità strutturale delle zone periferiche, che sempre più frequentemente saranno il teatro di contese asimmetriche. Un mondo nuovo che coglie impreparata parte della nostra opinione pubblica, che senza alcun pudore è riuscita nell’arco degli anni a sostenere l’intervento Usa, a invocare ad alta voce il disimpegno dall’Afghanistan e nei giorni in cui piangeva Gino Strada a rammaricarsi per il ritiro dei paesi occidentali, mentre sperava tacitamente in un intervento cinese in Afghanistan. Il tutto inneggiando ai valori liberal-democratici che il disimpegno degli Usa metterebbe in pericolo. Una schizofrenia destinata ad aumentare nell’epoca di incertezza che ha nell’entrata dei talebani a Kabul una tappa dall’indiscutibile valore simbolico. 

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI