La ritirata, forse meglio dire la fuga, degli Stati Uniti dall’Afghanistan sta avendo riflessi crescenti sull’Unione Europea, non solo per il fatto che i Paesi europei coinvolti hanno dovuto raccogliere i cocci di una rottura non causata da loro.
Come già affermato in un precedente articolo, la questione afghana rimette in discussione il ruolo degli Stati Uniti come guida mondiale, malgrado le roboanti affermazioni di Joe Biden. Il modo in cui Biden ha abbandonato i governativi afghani, come a suo tempo Trump con i curdi, lascia qualche perplessità sull’affidabilità degli Usa come alleati. Si riapre così la discussione sulla Nato e su come possa progredire l’Unione Europea dall’attuale insoddisfacente situazione.
Uno dei più attenti osservatori della questione è Giulio Sapelli ed è quindi interessante approfondire quanto sostiene nel suo ultimo articolo sul Sussidiario. Un primo punto sollevato da Sapelli è il pericolo che l’Ue sprofondi nel caos dei nazionalismi e in una serie di alleanze tattiche, a geometria variabile. Occorrerebbe invece operare “guardando oltre, avendo di mira i destini dell’Europa nel mondo e dell’Europa nel partenariato con un’Africa che dell’Europa e del mondo può benignamente decidere le sorti”.
L’obiettivo è indubbiamente condivisibile e lo è anche la strategia suggerita: “una cooperazione federalistica e non nazionalistica tra tutte le nazioni europee”. Il problema è quanto questo sia oggettivamente fattibile, e non solo perché “è triste pensare che tutte le patrie europee danno ancora il meglio di sé solo quando si rappresentano solo come nazioni fiere della loro storia, mentre lontano continua a essere qualsivoglia anelito veramente europeo in senso culturale e umanistico”.
L’esasperazione del nazionalismo rappresenta senz’altro un ostacolo all’unificazione, ma non si può negare l’esistenza di obiettive forti differenze tra i 27 Paesi dell’Unione, a partire dalle 24 lingue ufficiali in vigore. Finché il Regno Unito faceva parte dell’Unione si poteva pensare all’inglese, già lingua di traffico internazionale, ma ora è difficile che ciò avvenga, né tedesco o francese possono essere una soluzione. L’unica altra lingua a grande diffusione è lo spagnolo, ma anche questa sembra una soluzione non facile, per cui la lingua “comune” rimarrà di fatto l’internazionale inglese.
Un discorso analogo si può fare per la storia. Gli Stati Uniti, possibile modello, non solo hanno una lingua comune, almeno per ora, ma anche una storia decisamente breve e relativamente unitaria rispetto a quella della maggior parte dei Paesi europei. Né è possibile trovare un punto di origine, concettuale o culturale, che possa essere fondamento dell’unificazione, dato che né il cristianesimo né il suo antagonista illuminista paiono essere più in grado di essere accettati come basi.
Quali prospettive quindi? Intanto una premessa: evitare di tornare alle rigide e burocratiche regole di bilancio sospese per la pandemia, come hanno invece recentemente richiesto i cosiddetti Paesi “frugali”. Poi, cercare di realizzare una maggiore convergenza su alcuni settori fondamentali, quali la difesa, la politica estera e la politica fiscale. Settori essenziali perché l’Unione possa esercitare un ruolo incisivo nell’attuale complesso panorama mondiale, ma anche qui sembra quasi impossibile superare i singoli particolari interessi in vista di un interesse comune.
Per quanto riguarda la difesa, un primo passo potrebbe essere una politica più unitaria all’interno della Nato da parte degli Stati dell’Ue, 22 su 30 membri dell’Organizzazione. L’ipotesi di un esercito europeo rimane comunque sullo sfondo, sebbene in lontananza. Altrettanto problematica è la questione della politica estera, dove si incrociano contrastanti visioni storiche, diverse esigenze territoriali, differenti proiezioni non solo politiche, ma anche economiche. Di certo è di scarsa utilità, forse solo un costo aggiuntivo, la figura dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza.
È più immediata, e in linea con l’attuale formulazione dell’Unione, l’esigenza di una comune politica fiscale, ma anche in questo campo le resistenze sono persistenti. Si pensi solo ai vari paradisi fiscali che esistono all’interno della Ue e sembra impensabile che questi Stati rinuncino a questi notevoli vantaggi per favorire una maggiore unità europea.
Rimane una sola strada forse, ripeto forse, praticabile: proprio quelle alleanze a geometria variabile criticate, peraltro giustamente, da Sapelli. Una soluzione anch’essa difficile e non ideale, ma come è noto “il meglio è nemico del bene”.
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