L’intervista rilasciata all’italiana Rete4 dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha mirato a visibili obiettivi geopolitici. Il primo era leggibile nell’affermazione – molto netta – riguardo la disponibilità di Mosca (o almeno: di Lavrov) a continuare ad accettare dollari ed euro in pagamento delle forniture di gas: a patto che essi vengano versati a Gazprombank. Si tratta di una contro-svolta, potenzialmente in grado di frenare – in un a fase critica – il realizzarsi della “sanzione finale” dell’Occidente (europeo) alla Russia: l’embargo del gas, oltre a quello del petrolio.
Il Cremlino, messo sotto pressione dal crollo del rublo dopo l’inizio della guerra all’Ucraina, aveva reagito annunciando l’obbligo di pagamento in rubli per l’export di gas: ciò tuttavia in palese violazione delle clausole contrattuali in essere (versamenti in euro e dollari, nell’interesse della Russia stessa ad accumulare riserve valutarie utili all’import di beni di consumo e investimento). La mossa – dettata presumibilmente anche dalla banca centrale russa – ha finito però per offrire sponda agli schieramenti “massimalisti” in Occidente: quelli che continuano a sollecitare un blocco immediato dell’import di gas dalla Russia, per prosciugare ogni minima risorsa finanziaria alla potenza che ha aggredito l’Ucraina.
Lavrov ha voluto chiaramente inserirsi in tempo reale in quella che è probabilmente la più cruciale fra le partite “a carte coperte” sul tavolo ucraino: ha rilanciato la palla nel campo euro-occidentale, ritirando l’insidiosa contro-sanzione sul pagamento in rubli, pur tenendo ferma la posizione di Gazprombank in territorio sanzionato dall’Occidente. Il ministro degli Esteri di Vladimir Putin è parso comunque ventilare una parziale “distensione” in campo energetico quando nei grandi paesi Ue (Germania, Francia, Italia) stanno giungendo al pettine tutti i nodi politico-economici della crociata etico-politica lanciata da oltre Atlantico dall’amministrazione Biden.
Non è stato un caso che un “lapsus” del ministro per la transizione energetica, Roberto Cingolani (indicato da M5s) , sia parso aprire verso il pagamento in rubli “tout court” per il gas russo. Palazzo Chigi è sembrato smentirlo, ma il discorso del premier Mario Draghi al parlamento Ue ha avuto nettamente toni meno radicali di quello filo-americani degli ultimi giorni. La Ue appare intanto ancora in stallo sull’embargo petrolifero, mentre Emmanuel Macron – appena riconfermato presidente in Francia, a suffragio popolare – ha ripreso il confronto diretto con il Cremlino.
Nelle stesse ore Papa Francesco ha rivelato fra virgolette di aver chiesto da tempo di volare a Mosca per potersi confrontare vis-à-vis con Putin sulla guerra ucraina: per chiedergli di farla cessare subito. È il presidente russo che si sta negando al capo della Chiesa cattolica, di gran lunga la maggiore fra le chiese cristiane fra cui anche quelle ortodosse. Questa palla – non leggera – è ora nel campo russo. Ma anche un po’ in quello americano: perché la vittoria di Biden su Donald Trump (il preteso “miglior amico” di Putin) non è stata del tutto estranea agli orientamenti delle Santa Sede. Che ora invece sono chiaramente divergenti da quelli della Casa Bianca, votata solo a una “pace vittoriosa”, al termine di tutta la guerra necessaria su suolo ucraino.
Un violento scambio di pallonate – attorno all’intervista di Lavrov – ha avuto impatto anche sul laborioso neutralismo fin qui tenuto da Israele sul fronte russo-ucraino. Un “terzismo” – quello di Gerusalemme – interrotto dalla partecipazione al vertice della “Nato allargata” che la settimana scorsa ha visto gli Usa convocare 43 Paesi “co-belligeranti” a Ramstein, quartier generale del Patto Atlantico in Germania. Israele ha confermato la partecipazione – a uno schieramento divenuto formalmente anti-russo – solo “last minute” e dietro un’importante contropartita diplomatica: l’impegno personale di Biden a un viaggio a Gerusalemme entro l’estate. Di fatto la Casa Bianca “dem” (pur dietro la generica prospettiva di una tappa di viaggio nei Territori palestinesi) ha aperto alla conferma degli “Accordi di Abramo” siglati da Donald Trump con il governo nazionalista-religioso di Bibi Netanyahu: cioè della tendenziale annessione nello Stato ebraico di gran parte della West Bank (e questo quando la Russia di Putin pretende per via bellica l’annessione dei territori russofoni in Ucraina).
L’intervista di Lavrov ha ricompreso anche la reazione – rapida e particolarmente violenta – di Mosca alla svolta israeliana. Il riferimento del ministro alle (presunte, dibattute) “origini ebraiche di Hitler” ha suscitato un coro globale di reazioni sdegnate, mentre il governo israeliano ha convocato l’ambasciatore russo. La lettura geopolitica del “missile” lanciato da Mosca su Gerusalemme in sorvolo su Kiev appare tuttavia più complessa di quella etico-mediatica. Lavrov ha preso lo spunto dalle origini israelite del presidente ucraino Volodymyr Zelensky: notoriamente sostenuto anche dai settori estremi e anti-democratici del nazionalismo ucraino (sintetizzati oggi nel gergo mediatico dalla voce “Battaglione Azov”). È un nervo scoperto della storia ucraina: durante la seconda guerra mondiale – che ebbe nelle pianure ucraine il teatro delle pagine più sanguinose della campagna russo-tedesca – decine di migliaia di ucraini si batterono sotto le bandiere naziste (alcuni in formazioni di SS) contro i russi. È comunque questo l’orizzonte storico – senza dubbio carico di strumentalità – entri cui Putin ha collocato alla vigilia dell’invasione l’obiettivo (per molti versi criptico) della “denazificazione dell’Ucraina”. Lavrov non ha fatto che articolare lo stesso concetto, gettando benzina sul fuoco: il nazionalismo “hitleriano” e anti-russo di allora sarebbe oggi oggettivamente declinato da un presidente israelita. È stata – almeno in parte – una provocazione da parte del ministro degli Esteri di Mosca. Ma è stata – almeno in parte – la risposta a una dinamica geopolitica. Quella che ha visto Israele lasciare solo – almeno apparentemente – Papa Francesco nel proclamare come priorità la pace e non la prosecuzione della guerra in Ucraina.
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