Sindaci eletti da chi li ha votati? Lapalissiano. Se però si scopre che la maggioranza degli elettori alle ultime elezioni comunali è di reddito medio-alto e che 8 su 10 di coloro che hanno redditi bassi sono rimasti a casa, il quadro che emerge dalle ultime comunali diventa preoccupante, e si allinea perfettamente al trend emerso nell’autunno scorso, dice al Sussidiario Carlo Buttaroni, sondaggista, fondatore e presidente di Tecnè.
Il resto è cronaca politica ancora da scrivere, perché i ballottaggi – Catanzaro, Monza, Parma, Verona, Cuneo, Lucca, Viterbo, Alessandria, per dirne alcuni – sono un’altra partita, nella quale il centrodestra parte potenzialmente svantaggiato.
Altro discorso ancora riguarda le prossime elezioni politiche: “in questo momento il centrodestra raccoglie circa il 50% dei consensi, mentre il campo largo Pd-M5s si ferma intorno al 37-38%”, sostiene Buttaroni.
Qual è l’elemento secondo lei più saliente di questa doppia tornata elettorale, comunali e referendum?
Ne sottolineo due. Il primo è l’astensione. Si è votato meno che nell’ottobre scorso, quando si pensava di aver raggiunto un record negativo. Il secondo elemento è che a non votare sono state le fasce più fragili della popolazione. Nove su 10 di coloro che hanno redditi bassi sono rimasti a casa. Vale anche per precari e disoccupati.
Allora chi si è recato di più alle urne?
I redditi medio-alti. Più i lavoratori dipendenti dei lavoratori autonomi. A Palermo ha votato il 22% dei redditi bassi, il 49% dei redditi medi e il 55% di quelli alti. A Genova il 27% dei redditi bassi, il 48% di quelli medi e il 53% di quelli alti.
Vale anche per il referendum?
Sì. A livello nazionale ha votato il 13% dei redditi bassi, il 24% dei redditi medi, il 32% dei redditi alti.
Come si spiega?
Chi ha problemi nella quotidianità si allontana dalla politica, perché nella politica non trova risposte. Neppure negli amministratori locali, che in qualche modo dovrebbero essere percepiti più vicini nel dare sostegno.
È un vulnus democratico.
Crea un forte problema di rappresentatività. Vuol dire che i sindaci sono eletti dalle persone che non hanno problemi. Ricordiamoci che stiamo attraversando più crisi sovrapposte: Covid, crisi economica precedente alla guerra, poi la guerra e l’aumento ulteriore dei prezzi. Ma le persone sulle quali gravano queste crisi sono le stesse.
Cosa dice il voto di lista?
FdI è il partito che esce meglio da queste elezioni, a conferma dei sondaggi che lo collocano in testa nei consensi nazionali. Anche i risultati della Lega confermano le dinamiche fotografate dai sondaggi che annunciavano un ridimensionamento. C’è una buona tenuta di Forza Italia, nonostante le amministrative rappresentino un terreno insidioso. M5s è il maggiore sconfitto. Il Pd va abbastanza bene.
Il Pd non è il primo partito?
Il Pd può dire di essere il primo partito perché le liste civiche di centrosinistra gli hanno sottratto meno voti di quelli che hanno tolto le civiche di centrodestra nell’altro campo. Vuol dire che le civiche di centrodestra hanno funzionato meglio. A Genova la lista civica di Bucci è abbondantemente la prima lista della coalizione, doppiando la seconda.
E poi?
Quando il centrodestra si divide va peggio. Non solo in termini di risultati istituzionali, ma anche di consenso. Ma questo vale anche per il centrosinistra.
Altro punto controverso: la lettura politica nazionale di questi numeri.
Serve cautela. Due osservazioni. Il bipolarismo centrodestra-centrosinistra è entrato certamente nel cuore e nel modo di leggere la politica degli italiani. È come quando si entra in casa: prima si accede al bipolarismo e poi si sceglie dove andare, chi in cucina, chi nel soggiorno, cioè il partito che più ci rappresenta. Forse nel centrodestra questo sentimento bipolare è più radicato, più forte.
Circola un dato: il centrodestra ottiene il 41% dei voti validi, il centrosinistra il 42,1%.
Ecco, questa è l’altra osservazione da fare. Generalizzare, davanti ai risultati delle amministrative, è facile ma fuorviante, perché chi è andato a votare non ha votato “il centrosinistra” o “il centrodestra”, ma un candidato sindaco appoggiato da certe liste. In molti casi i candidati che sono arrivati terzi venivano da divisioni del centrodestra, come a Verona.
C’è un caso di scuola?
Verona. Innanzitutto per la divisione nel centrodestra. È evidente che Tosi e Sboarina hanno pescato nello stesso bacino elettorale. La lezione è che una coalizione – e questo vale sia a destra che a sinistra – nel momento in cui mette in discussione il proprio candidato sindaco o il sindaco uscente – com’è successo con la Raggi a Roma – paga un prezzo altissimo, indipendente dalla qualità della persona.
Spiazzando l’elettore?
Esatto. Questo conferma che i partiti continuano ad avere un ruolo di orientamento. Se il partito che mi piace non è sicuro di Tizio, anche se poi lo sostiene, perché dovrei votarlo? Ci manca un po’ la prima Repubblica.
Che cosa intende?
Durante la prima Repubblica si poteva tranquillamente cambiare un sindaco o un candidato sindaco, ma questo succedeva nelle segrete stanze dei partiti, non alla luce del sole. Adesso tutto avviene sui media, con la conseguenza che spesso i candidati vengono delegittimati dalla loro stessa parte politica.
Mi ha detto però che i partiti fanno ancora da bussola per l’opinione pubblica.
Sì, ma con un peso molto più debole, proprio perché il modo che hanno di far politica li diluisce nell’opinione pubblica stessa. Questo non è stato un fattore di miglioramento nell’efficienza dei sistemi politici, al contrario.
Su Verona che previsione si sente di fare?
Difficile dire cosa accadrà. Né si possono sommare in modo algebrico i voti di Sboarina a quelli di Tosi, perché si è creato un clima teso e conflittuale e non è semplice ricucire in 15 giorni. Dovranno essere bravi i leader politici e i due candidati sindaco a costruire una prospettiva dopo le divisioni. È questo che in fondo desiderano gli elettori di centrodestra.
Cosa si può dire in generale del secondo turno?
È sempre un’altra partita, però è una partita che si gioca anche con quello che uno ha seminato nel primo turno. Le contrapposizioni nette del primo turno non aiutano. I dati storici dicono che negli anni duemila tra primo e secondo turno si sono fatti molti più apparentamenti di quanti se ne fanno oggi.
Conferma la difficoltà di portare gli elettori del centrodestra a votare il secondo turno?
In genere è l’elettore di centrodestra che negli ultimi tempi va meno a votare, ma per le ragioni che le dicevo prima, legate alla fragilità sociale. Negli ultimi dieci anni si è rovesciato il rapporto di rappresentanza: prima era la sinistra a rappresentare i ceti più fragili, oggi è il centrodestra.
Catanzaro e Monza?
Impossibile fare previsioni, a meno di fare delle rilevazioni a 2-3 giorni dal voto.
Cosa devono fare i candidati?
Dimostrarsi capaci di dare un senso ad una nuova elezione.
Mentre l’alleanza di centrodestra, al netto delle liste civiche, presenta la stessa formula, che ne è a sinistra del “campo largo”?
È la domanda chiave. È vero che in alcuni contesti il centrodestra si è diviso, ma nel complesso mantiene una sua geometria politica chiara e riconoscibile, e gli elettori danno per scontato che Lega, FdI e FI saranno insieme alle prossime elezioni. Ma nel centrosinistra un’alleanza non c’è, e il fatto che il raggruppamento non abbia un nome è significativo: per i 5 Stelle è il “campo progressista”, per il Pd è il “centrosinistra allargato” e via dicendo.
Questo cosa comporta?
Fa sì che a sinistra ci sia il Pd e intorno altre forze di varia ispirazione che vanno e vengono, e una conflittualità più latente ma a più alta frequenza rispetto al centrodestra.
Una sua “proiezione”?
In questo momento il centrodestra raccoglie circa il 50% dei consensi, mentre il “campo largo” si ferma intorno al 37-38%. E non va fatto l’errore di farlo lievitare sommando le singole liste di queste comunali.
(Federico Ferraù)
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