Molti ricordano ancora il filosofo americano John Rawls che nel 1971 rivoluzionò le scienze sociali con il suo libro Una teoria della giustizia (tradotto in italiano nel 1982). Non è certo in un periodo elettorale (pre e post) che si può fare riferimento al suo pensiero per trovare indicazioni in materia di politica economica, o di politica redistributiva. Tuttavia, c’è un elemento della sua teoria che può essere utile: il concetto di “beni primari”, ossia di beni “che qualsiasi persona raziocinante vuole avere qualsiasi altra cosa voglia e possa volere”. Ci sono politiche economiche “primarie” che qualsiasi cittadino (e a maggior ragione qualsiasi leader politico) raziocinante voglia proporre e attuare qualsiasi altra politica egli voglia proporre e attuare?



È un interrogativo che vale la pena porsi nella giornata in cui vengono resi noti risultati elettorali di grande rilievo sia per l’Unione europea, sia per il nostro Paese, dato che la “conta”, pur non incidendo sugli attuali equilibri parlamentari, sarà un forte segnale di gradimento o meno alle politiche economiche formulate, e in parte attuate, negli ultimi dodici mesi, nonché di chi, all’interno della coalizione di governo, le ha proposte e attuate. Questo segnale avrà, senza dubbio, ramificazioni non secondarie sugli equilibri politici, anche se non immediatamente. Chiunque sarà al timone – l’attuale coalizione o un’altra – non potrà ignorare quelle che abbiamo denominato le politiche economiche “primarie” che qualsiasi cittadino o leader politico raziocinante voglia proporre o attuare, qualsiasi altra politica egli voglia proporre e attuare.



A mio avviso, la più urgente politica economica “primaria” è il riassetto della finanza e del debito pubblico. Non tanto perché è richiesto da trattati e accordi firmati e ratificati dall’Italia, ma perché i disavanzi della finanza pubblica e i crescenti timori di una ristrutturazione del debito pubblico pesano da oltre un anno soprattutto sui ceti più deboli. È utile ricordare che dopo avere effettuato la riforma monetaria che, nell’immediato dopoguerra, ridusse il debito dell’Italia al 25% del Pil aprendo la strada al successivo “miracolo economico”, Luigi Einaudi disse che avrebbe preferito far scendere il debito con un’imposta patrimoniale perché sarebbe stato un metodo “più equo”. Le misure monetarie, infatti, non colpiscono indifferenziatamente tutti (come spesso si crede), ma mordono di più sulle fasce a tenore di vita più basso, mentre le imposte patrimoniali possono essere modulate in modo da incidere su coloro che hanno un elevato stock di ricchezza e non sfiorare chi ricchezza non ha e ha un reddito basso. Inoltre, il Governo che le propone e il Parlamento che le approva se ne assumono la responsabilità politica e sociale.



Lo spread è come un’imposta patrimoniale: incide sulla ricchezza deprezzando il valore dei titoli di Stato in possesso di banche e risparmiatori. Tanto le prime quanto i secondi se non hanno urgenza di fare cassa possono aspettare che “passi à nuttata” (come diceva Edoardo De Filippo), ma nel contempo limitano le loro attività in attesa di sapere meglio quale aria tirerà. Le banche restringono il credito alle imprese e ai privati o ne aumentano il costo. Come una patrimoniale, lo spread colpisce alla fine non tanto l’alto management bancario (quella categoria di dirigenti un tempo definiti “plutocapitalisti”), quanto l’utenza finale.

A quanto ammonta la patrimoniale occulta dello spread all’Italia e agli italiani? La Reuters ha effettuato un’utile rassegna di varie stime. Interpolando il recente rapporto sulla stabilità finanziaria e facendo un semplice calcolo, si può dire che nei dodici mesi è costato almeno 6 miliardi di euro a carico dei meno abbienti. Infatti, chi soffre maggiormente di questa patrimoniale occulta sono, in primo luogo, gli italiani in cerca di lavoro perché a ragione delle restrizioni del credito, dell’aumento del costo del denaro e dell’incertezza in generale, le imprese rinviano programmi di ammodernamento o espansione e non assumono. In secondo luogo, le giovani famiglie che vogliano acquistare casa poiché i mutui si fanno più cari e più rari.

Spesso si crede che spread sia un termine inglese per indicare un fenomeno per iniziati a discipline finanziarie. Occorre cominciare a esaminarne gli aspetti sociali. Il riassetto della finanza pubblica e l’allontanamento dello spettro del debito pubblico rappresentano la “politica sociale primaria” se si hanno a cuore i più disagiati. Ciò comporta già da oggi rassicurare i mercati sulla prossima Legge di bilancio: verrà fatta o non verrà fatta una manovra di 30-35 miliardi di euro? E se verrà fatta, come e a carico di chi?

In parallelo, l’altra politica “primaria” è l’attivazione della crescita. Per facilitare la crescita, dopo dieci ani di stagnazione, ci vuole innanzitutto un Governo coeso che abbia la fiducia di investitori italiani e stranieri. Occorre poi dotarsi di un parco adeguato di moderne infrastrutture che generino occupazione nella fase di cantiere e produttività in quella a regime. Senza crescita, sarà impossibile migliorare le condizioni dei più poveri e mettere in moto un ascensore sociale che consenta a loro e ai loro figli di giungere a livelli migliori nella società.

Queste due “politiche primarie” possono sembrare inattuabili. L’Italia ha, però, effettuato scelte coraggiose, e paganti, non solo nell’età giolittiana e negli anni del miracolo economico. Ad esempio, negli anni Ottanta, gli italiani sono stati considerati un modello per come sono riusciti simultaneamente ad abbassare drasticamente il tasso di inflazione e a non penalizzare la crescita.