A urne aperte si discute su che cosa farà il prossimo Governo. Ma forse sarebbe opportuno soffermarsi su quello che deve fare subito, fin da domani, il Governo in carica per gli affari correnti. Una definizione che suona quasi ironica se si pensa che sul tavolo ci sono veri e propri “affaroni”, tanti e tali da far tremare i polsi anche a Governi con pieni poteri. Il voto anticipato ha generato ingorgo e affanno. Bisogna completare gli ultimi 40 traguardi del Pnrr entro la fine dell’anno. L’altro intervento urgente riguarda la Legge di bilancio. Tutto è congelato, compresa la Nadef (Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza) che contiene il quadro congiunturale e le macro cifre. Ma bisognerà decidere subito anche sul caro bollette, sulla nuova campagna vaccinale, sulle pensioni (quota 102 scade a fine anno, poi si tornerebbe alla Fornero).



Per molte leggi come la finanziaria occorre un voto del Parlamento, però il nuovo esecutivo non potrà essere in carica rapidamente. Il record di velocità, 25 giorni, spetta al Governo Berlusconi 4 nel 2008, il record di aggrovigliata lentezza al Conte 1, ben tre mesi dalle elezioni nel 2018. Se così fosse arriveremmo oltre Natale e bisognerà ricorrere all’esercizio provvisorio: una falsa partenza, un’ombra oscura sull’intera legislatura, con il rischio che all’inflazione e alla crisi del gas si aggiunta una tempesta finanziaria. Non facciamo i gufi, ma è meglio tenere la guardia alta.



Le cose da realizzare nell’immediato sono molte e molto complicate. L’ultimo decreto aiuti è stato approvato, ma perché i 17 miliardi di euro siano disponibili il provvedimento non deve cadere nelle trappole del Parlamento ancora in carica. Intanto l’Associazione dei costruttori calcola che gli extracosti hanno già un impatto di 5 miliardi di euro sulle imprese, colpendo l’attività dei 23mila cantieri di opere pubbliche aperte. E questo mette direttamente a rischio il Pnrr.

Le bollette del prossimo trimestre saranno anch’esse sterilizzate dagli oneri impropri? Non è abbastanza, ma rappresenta comunque un sollievo. L’Arera dovrà decidere, il Governo dovrà dare il via libera. Il presidente dell’agenzia, Stefano Beseghini, ha lanciato un allarme che non riguarda solo i bilanci delle famiglie, ma le imprese che erogano gas e luce. Il timore è che scatti una catena di default. Il Governo in carica dovrebbe intervenire iniettando liquidità, altrimenti finirà come in Francia dove è stata nazionalizzata l’azienda elettrica e in Germania dove il Governo ha stanziato 8 miliardi di euro per salvare la Uniper che distribuisce il metano. Intanto incombono scadenze importanti anche per i dossier industriali ancora aperti. Che fine farà ITA? Verrà chiuso l’accordo con il fondo americano Certares (con Air France Klm e Delta come partner commerciali)? E Montepaschi? L’assemblea ha approvato il 15 settembre l’aumento di capitale da 2,5 miliardi, due terzi dei quali debbono uscire dal Tesoro.



Il disbrigo degli affari correnti è una definizione vaga che non ha una ricostruzione univoca nella disciplina costituzionalistica. Il secondo Governo Prodi azzardò una delimitazione. Nel preambolo alla direttiva del gennaio 2008 si legge: “Il Governo (dimissionario, ndr) rimane impegnato nel disbrigo degli affari correnti, nell’attuazione delle determinazioni già assunte dal Parlamento e nell’adozione degli atti urgenti. Dovrà, in particolare, essere assicurata la continuità dell’azione amministrativa, con particolare riguardo ai problemi dell’occupazione, degli investimenti pubblici ed ai processi di liberalizzazione e di contenimento della spesa pubblica”. Sono maglie sufficientemente larghe, ma tanto da comprendere anche un extra-deficit da 30 miliardi di euro come vorrebbe Salvini?

Il ministro dell’Economia Daniele Franco ha detto che si limiterà a presentare la cornice finanziaria e a fissare le cifre di carattere generale. Non ci saranno prescrizioni, perché spetta al nuovo Governo riempire il quadro di contenuti e scrivere la Legge di bilancio per il 2023. Tuttavia, anche le indicazioni di massima hanno una ricaduta concreta. Se viene mantenuto un limite all’indebitamento pari al 3,9% del prodotto lordo l’anno prossimo, come previsto nel Def, non ci sarà davvero spazio per scostamenti. Né c’è da attendersi “tesoretti” perché il rallentamento dell’economia non produrrà nessun extra-gettito fiscale. Non solo, proprio la bassa congiuntura e il pericolo che l’anno prossimo la crescita sia vicina allo zero come prevede l’Istat, apre nuovi scenari anche alla politica fiscale. Da un lato, c’è bisogno di sostenere la domanda, quindi ridurre le imposte fa bene alla crescita, dall’altro, un bilancio pubblico sotto pressione non lascia molti margini al taglio delle tasse. Il nuovo Governo dovrà muoversi per forza di cose tra questi due scogli, ma è quello attuale a stabilire dov’è Scilla e dov’è Cariddi.

Circa 31 miliardi sono stati stanziati con i due ultimi decreti aiuti e per Draghi ulteriori spese sarebbero debito cattivo. Da domani il limite all’indebitamento sarà oggetto di polemica non solo e non tanto verso Draghi, ma soprattutto tra Giorgia Meloni e Matteo Renzi. Scostamenti continui, spendi e spandi, sono le forze oscure che insidiano il bilancio dello Stato, ma sono anche le malattie endemiche dell’Italia, quelle che suscitano dubbi e preoccupazioni in chi investe i propri risparmi in debito tricolore. Qui si giocherà la credibilità del Paese.

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