Condivido riflessioni fatte con amici da questa parte dell’Atlantico, costa Est degli States, a riguardo delle elezioni che hanno visto Trump affermarsi in modo sorprendente.
L’aspetto che mi preoccupava di Trump era il messaggio francamente inaccettabile sui latinos (“deportation”), che sono nostri amici e conosciamo bene. Mettere fine all’immigrazione non governata e caotica è un must per le società occidentali, e richiede che ogni donna e quindi ogni famiglia che desidera avere dei figli sia messa nelle condizioni di farlo responsabilmente e senza impedimenti, senza imporre scorciatoie “immigrazioniste”. Richiede cioè che le politiche endogene siano la colonna portante. Questo approccio ordinato richiede tempo e fa il paio con l’inclusione, che deve avvenire gradualmente per accettare che i valori di fondo di una società vengano reinterpretati alla luce della storia in modo che non faccia a pugni con il vissuto e le identità. Altrimenti, per forza, la paura della perdita del senso di sé che investe chi si vede vittima di un’immigrazione caotica diventano terreno fertile per gli estremisti di varia foggia, come si vede bene accadere nel nord dell’Europa.
Detto questo, i latinos che sono già qua in America e lavorano onestamente stanno tenendo questo Paese in piedi e vanno gradualmente inclusi. Su questo non sono assolutamente d’accordo con il messaging di Trump.
Sull’aborto, Trump ha facilitato (uso un linguaggio spiccio) una soluzione andreottiana (un colpo di classe di alta politica, di cui gli si deve dare credito): quella di spostare il dibattito non tanto sulla sostanza, ma sul metodo, lasciando che la decisione a riguardo della legislazione in materia sia tenuta a livello degli Stati. Non riesco neanche a immaginarmi che un domani qualcuno possa credibilmente forzare un passo indietro, sottraendo dalle competenze dello Stato questo campo di legislazione. Ed è giusto che una cosa che va così al fondo della coscienza delle persone sia lasciato a una comunità politica più prossima.
Un enorme vantaggio che tanti sentono, e certamente una speranza che nutrono, è che con Trump Presidente ci si potrà organizzare per continuare a garantire spazi di libertà alla cultura non-Woke (su cui, ripeto, non capisco come in Europa si sia cosi tiepidi; qua è un disastro). Poi Trump non è un santo e l’America è una società in profonda crisi (incapace di produrre sintesi), sintomo avanzato di quello che succede altrove nelle società occidentali ridotte a sistemi transazionali (non di relazioni di significato capaci di investire il “noi”) e atomizzate.
Ma, e qui sta la differenza, almeno qua, negli States, questa rimane una battaglia viva con forze dal basso che vogliono e possono organizzare la propria visione e chiedere sia rispettata, che soprattutto la si lasci parlare pubblicamente come contributo di ognuno alla costruzione. Rimane un enorme (e sano) scetticismo sulla centralizzazione e il rischio che si usi della forza delle grandi burocrazie e del Deep State per imporre modelli unilaterali, che cozzano semplicemente con il vissuto e il buon senso. L’alternativa a questa “ribellione” è sottostare a questo totalitarismo felpato ma non meno pericoloso. L’americano (ancora….) non chiede che il politico gli dia un’identità. L’americano, ancora, innanzitutto chiede che gli si lasci spazi per cercarla e viverla.
Questo – sul filo di seta – è positivo e chiama “noi” a un lavoro: ci interessa questo campo aperto, prima di ogni altra cosa, e cosa ci preme approfondire e comunicare ai nostri figli a riguardo di ciò in cui abbiamo verificato consistere la nostra vita.
Dopo tutto, è andata molto bene con comunque molti rischi.
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