Anche ieri si è consumato l’ennesimo scontro tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Al centro del contendere, la volontà del vicepremier leghista di intervenire sull’abuso d’ufficio. “Io – ha sottolineato Salvini – voglio scommettere sulla buona fede degli italiani, degli imprenditori, degli artigiani, dei sindaci” e invece oggi c’è “una burocrazia e una paura di firmare atti, aprire cantieri, sistemare scuole, ospedali”. Immediata la dura replica dell’altro vicepremier: “Se un sindaco agisce onestamente non ha nulla da temere. Non è togliendo un reato che sistemi le cose. Il prossimo passo quale sarà?”. Poi Di Maio ha aggiunto: “Sia chiara una cosa, per noi il governo va avanti, ma a un patto: più lavoro e meno stronzate!”.



Insomma, è più di un mese che i due azionisti del governo giallo-verde battibeccano tra loro. E nello stesso tempo ribadiscono, ogni volta, che dopo le elezioni europee, a partire da lunedì 27 maggio, tutte queste fibrillazioni finiranno e il governo riprenderà il suo cammino per durare altri 4 anni. Ma come è possibile ricostruire, di colpo, quasi magicamente, come se nulla fosse, un rapporto che si è via via logorato, in un susseguirsi di dispetti, sospetti e accuse reciproche? Non ci saranno strascichi? “Dopo il voto di domenica 26 maggio – risponde Guido Gentili, già direttore, poi direttore editoriale e oggi editorialista del Sole 24 Ore – prevedo una fase politica difficile, complicata. E vorrei ricordare che già dopo il voto alle politiche del 4 marzo 2018 ci vollero 89 giorni, un record assoluto nella storia repubblicana, prima di arrivare alla formazione del governo”.



I due alleati di governo da tempo se le suonano di santa ragione, su qualsiasi argomento. E’ solo campagna elettorale?

E’ una campagna elettorale, purtroppo per questo Paese, ormai permanente, con toni ben sopra le righe e che vede in campo i due vicepremier, Di Maio e Salvini, di un governo nato sull’onda dei risultati del 4 marzo 2018. Basta vedere sull’abuso d’ufficio le battute che si sono scambiati per capire a che livello è arrivato lo scontro. Non è solo un confronto aspro tra due personalità diverse ma con tratti mediatici in comune, l’aggressività. Qui si scontrano due identità di due partiti, di due movimenti che sono nati su basi e presupposti completamente diversi. Uno scontro identitario che non è solo campagna elettorale, ma anche qualcosa di più.

Come valuta e interpreta le recenti dichiarazioni di Giorgetti?

Sono coerenti con il quadro che abbiamo delineato. Giorgetti è persona prudente, un politico di lungo corso, in Parlamento dal 1996, già presidente di commissioni parlamentari, è stato anche nella Commissione dei saggi istituita da Napolitano, è un interlocutore serio a livello istituzionale italiano ed europeo ed è persona abituata a pesare le parole. Il fatto di aver portato all’attenzione dell’opinione pubblica che “così non si può più andare avanti”, che occorre un cambio di passo pesante, da un lato sottintende l’ambizione della Lega di poter ottenere uno straordinario risultato alle europee, e dall’altro certifica che, ragionando in termini di governabilità – basta pensare all’alta velocità ferroviaria, su cui la Lega è favorevole e il M5s contrario, ma resta un tema su cui si dovrà raggiungere un accordo definitivo – c’è nell’aria una frattura che è qualcosa di più delle divergenze sulle singole clausole del contratto di governo. E’ una divisione tra due identità profondamente diverse.

Lo scontro e le divergenze si trascineranno anche dopo il voto?

Ci saranno sicuramente degli strascichi, innanzitutto perché il voto di domenica per eleggere i rappresentanti del Parlamento europeo avrà un valore che tocca direttamente la nostra situazione politica interna. Ma è altrettanto vero che, una volta emersi i risultati dalle urne, nessuno potrà fare a meno di fare i conti con quelli che sono stati i dati del marzo 2018.

In che senso?

Il 4 marzo dell’anno scorso è emerso un ben preciso rapporto di forza tra M5s e Lega, molto evidente nelle due Camere in termini di seggi parlamentari, quindi di agibilità governativa. Il post-voto di domenica, quindi, potrebbe complicarsi maledettamente.

Perché?

Il risultato del 2018 dice Lega al 17%, con aspettative adesso di salire intorno al 30%, magari un po’ sopra o un po’ sotto, mentre il M5s l’anno scorso ha totalizzato il 32,7%. E la governabilità è rappresentata dai seggi in Parlamento. Non potranno fare a meno di affrontare questo aspetto.

In caso di forte ascesa della Lega e di brusca frenata del M5s, magari insidiato da vicino dal Pd, che cosa potrebbe succedere?

La Lega tornerà con forza ad avanzare le sue istanze, forte appunto di un risultato positivo, e a quel punto occorrerà vedere se i numeri danno a Salvini la possibilità di intravvedere anche una maggioranza diversa. Se invece, accanto alla crescita della Lega, i Cinquestelle tengono senza cadute rovinose, a quel punto, l’unica maggioranza possibile futura rimane quella giallo-verde, ma con rapporti interni modificati o ribaltati. Non ci sono però altre alternative.

Nella Prima Repubblica i dissidi tra partner di governo venivano risolti con un rimpasto. Oggi questa ipotesi è stata preclusa sia da Di Maio che da Salvini. Quindi come si potrà ripartire da lunedì 27 maggio?

Nella Prima Repubblica tutto veniva ricomposto con un’operazione che spesso sfociava in un rimpasto, a sua volta successivo alla cosiddetta verifica di governo, dove i vari partiti si riunivano intorno a un tavolo per capire se e come andare avanti. In questo caso è più difficile.

Per quali motivi?

Primo, perché questo governo giallo-verde, novità assoluta, più che su un accordo politico tra due identità che convergono su un determinato obiettivo politico si fonda su un contratto di governo messo nero su bianco e sul quale vigila un non parlamentare, cioè il giurista professor Giuseppe Conte, per assicurarne la realizzazione. Ora, è chiaro che un risultato elettorale che sbilanci il rapporto da cui è scaturito questo governo – ricordiamolo: M5s al 33% circa e Lega al 17% – deve indurre i due contraenti a prenderne in qualche modo politicamente atto.

In concreto?

Sono al momento ipotesi sulla carta, ma a quel punto o viene ricontrattato il contratto oppure la divisione diventa talmente profonda che uno dei due butta all’aria il tavolo negoziale, aprendo quindi una fase che può sfociare in nuove elezioni anticipate o in un’articolazione diversa con altri protagonisti che entrano in campo per formare una nuova maggioranza.

Le elezioni di domenica, all’inizio presentate come un referendum sull’Europa, rischiano così di diventare un referendum sui due alleati di governo?

Certamente, la campagna elettorale finora è andata proprio in questa direzione. Ciascuna forza chiede i voti per sé e non per l’attuale maggioranza di governo, ciascuno vuole rafforzare la propria posizione sul tavolo. E quando conosceremo i risultati, quanto più saranno divergenti rispetto alle percentuali delle politiche 2018, tanto più sarà difficile ricomporre il quadro politico. Si apre una partita nuova, lunedì 27 non ci sarà nulla di risolutivo. Il voto di domenica è un referendum per certi aspetti su chi prevale in queste elezioni europee, ma poi questo dovrà essere tradotto nella governabilità di tutti i giorni. E per citare un esempio, cosa succederà a due decreti decisivi, il decreto crescita e lo sblocca-cantieri, che devono essere approvati e sui quali si dovrà raggiungere un accordo in Parlamento?

Oltre al voto europeo, si vota anche per la Regione Piemonte e per rinnovare 4mila consigli comunali. Avranno ripercussioni sugli equilibri nazionali?

Il voto in una Regione importante, dal punto di vista economico e sociale, come il Piemonte arriva dopo che nei mesi scorsi abbiamo assistito a elezioni regionali in altre zone d’Italia che hanno registrato tutte un’affermazione del centrodestra. Quindi, il risultato delle elezioni piemontesi avrà ovviamente il suo peso e se sarà confermato il trend delle consultazioni precedenti spingerà la Lega, per esempio, a puntare con maggior decisione sulla flat tax. Un tema che andrà a rimbalzare sul tavolo del governo.

Prima accennava alla possibile verifica di governo tra M5s e Lega. Chi potrà aiutare questa verifica tra due partiti così eterogenei e litigiosi: Mattarella? Conte?

Hanno due compiti diversi. Il presidente della Repubblica manterrà il suo ruolo di garante del sistema paese, cercando di convogliare tutti i confronti politici nell’ambito di quelle che potranno essere le risposte possibili a livello istituzionale. Diverso il caso di Conte, la cui figura è stata scelta proprio con il proposito esplicito di garantire l’attuazione del programma di governo messo nero su bianco nel contratto. Ma il dialogo tra presidente del Consiglio e presidente della Repubblica sarà stretto, perché la verifica tra Lega e M5s sarà molto difficile. Se poi il confronto-scontro più che sul da farsi concreto si giocherà sulle identità, non ci sarà contratto di governo che tenga.

Tra Salvini e Di Maio chi potrebbe essere più tentato dall’aprire una crisi di governo?

Dipende da chi intravede come il voto europeo possa in qualche modo rispecchiare un possibile voto nazionale. Ma vorrei ricordare quel che è successo nel 2014 alle europee, quando ci fu una straordinaria affermazione del Pd guidato da Matteo Renzi. Anche se rispetto a oggi c’è una bella differenza.

Quale?

Il governo Renzi, grazie anche al bonus degli 80 euro, riuscì a canalizzare un consenso fortissimo, ma poi quel consenso rimbalzò a livello politico nazionale su un governo già in pista da alcuni mesi. Oggi è diverso: l’affermazione molto forte di uno dei due contendenti andrà a rimbalzare sull’altro azionista del governo, già in competizione diretta.

(Marco Biscella)