Non ha avuto molto risalto sui nostri quotidiani l’ultima decisione dell’amministrazione Trump in merito a dazi e dintorni. L’amministrazione americana ha proposto sanzioni su importazioni europee per circa 4 miliardi di euro come risposta ai sussidi ritenuti ingiusti con cui l’Ue e alcuni stati europei hanno aiutato l’industria europea di produzioni di “grandi aerei civili”. Si parla ovviamente di Airbus. Nella lista dei beni esportati dall’Europa che potrebbero essere soggetti a sanzioni si trovano pasta, parmigiano, olive ma anche whisky, presumiamo scozzese. È singolare che queste polemiche riprendano forza subito dopo la teorica schiarita delle tensioni commerciali verso la Cina.
L’Unione europea è un esportatore netto nei confronti degli Stati Uniti e al suo interno la Germania spicca con un surplus di circa 60 miliardi di dollari seguita da Italia, 30 miliardi, e Francia, 15. Gli Stati Uniti sono di gran lunga il primo partner commerciale tedesco. Qualsiasi irrigidimento americano sulle importazioni europee è un problema notevole per l’Europa, che ha sacrificato una buona parte del suo mercato interno sull’altare dell’austerity nel 2011 spedendo all’inferno con diversi gradi di gravità Italia e Spagna, Grecia. Anche la Francia non sta molto bene. Il crollo dell’euro verso il dollaro e l’austerity interna, per via dei difetti dell’euro, hanno trasferito risorse dalla periferia al centro perché le imprese tedesche si sono trovate con un tasso di cambio sfasciato e tassi bassi senza alcun conto da pagare. In sostanza, la crisi della periferia ha esasperato il modello europeo basato sulle esportazioni.
Oggi, nonostante dati abbastanza paurosi sul rallentamento dell’economia tedesca, la Germania continua a rifiutarsi a fare deficit. È una strategia possibile solo scommettendo che il contesto extraeuropeo rimanga favorevole e commercialmente aperto e che la periferia possa essere ricondotta con le cattive in uno schema che per lei è chiaramente perdente.
L’Unione europea non è la Cina. Il mercato interno di Pechino non è stato intaccato pesantemente con la “crisi” dei debiti sovrani e ancora oggi non è costantemente messo sotto pressione dall’austerity o da una battaglia asimmetrica tra “partner”. Nell’Unione europea non si investe e l’Europa semplicemente non compare nella classifica dei primi 20 progetti infrastrutturali del mondo. L’Unione europea è divisa al suo interno e ha una politica economica mercantilista e sostanzialmente opportunista.
Se si aprisse una fase di scontro commerciale vero tra Stati Uniti e Ue andrebbe in crisi il modello europeo e si aprirebbe una fase di frizione tra Paesi membri. Si può “punire” l’Unione europea tassando le esportazioni di olive e vino, champagne o auto, ma è evidente che non è la stessa cosa per i singoli stati membri. A sua volta l’Europa dovrebbe decidere cosa eventualmente sacrificare sull’altare di relazioni commerciali più equilibrate con gli Stati Uniti. L’Europa si può “salvare” o cambiando modello e quindi riequilibrando i rapporti interni oggi squilibrati oppure si può portare all’estremo il modello attuale scaricando sulla periferia tutti gli squilibri esistenti. In questo secondo caso dopo la “rapina” della periferia o si arriva a una sua colonizzazione o a una rottura, perché tenere insieme il sistema diventa troppo difficile e costoso.
La domanda oggi è come intende rispondere chi conduce l’Europa a queste sfide. Viste le ultime nomine alla Bce, Christine Lagarde, e alla presidenza della Commissione europea, Ursula von der Leyden, non c’è da stare molto allegri. Quanto successo nel 2011 e le dichiarazioni sulla necessità di garantire gli aiuti europei con oro e industrie (Eni ed Enel per fare due esempi) non sono entusiasmanti per noi italiani. Diciamo subito che piuttosto sarebbero meglio persino i mini-Bot. Meglio una piccola lira, gli asset strategici e l’industria salva piuttosto che la rapina finale.