Le manifestazioni per la pace in Ucraina di sabato scorso sono state diverse dalle migliaia di manifestazioni pacifiste che negli anni si sono succedute nel nostro Paese.
Innanzitutto perché il conflitto ucraino è diverso dai soliti contesti: un’aggressione in piena Europa tocca da vicino e coinvolge ma – ad ormai nove mesi dal suo inizio – si percepisce una stanchezza che rischia di trasformarsi in una cancrena che stravolge non solo i contendenti ma tutto il continente.
L’ imponenza delle manifestazioni sottolinea comunque la credibilità dei sondaggi che hanno sempre sottolineato l’esistenza di un’ampia minoranza (la quale potrebbe diventare aperta maggioranza) politicamente trasversale che chiede uno stop ai combattimenti e non vuole l’invio di altre armi italiane.
Indirettamente, però, è stata anche una piazza “politica” o meglio “più piazze”, visto che ancora una volta si sono toccate con mano le ostilità e le divisioni a sinistra, che hanno messo in luce un notevole imbarazzo e molta confusione rispetto a quale debba essere la posizione italiana sul conflitto.
Diciamoci le cose senza ipocrisia: fino all’altro ieri il governo “di larghe intese” imponeva di fatto un divieto politico a manifestare, con il Pd che sembrava il fautore più spinto della linea dura e il M5s – pure al governo – che si adeguava con pochi distinguo.
Oggi, cambiato scenario, i grillini scelgono la spinta del pacifismo e prende subito forza quella sinistra che vuole apertamente prendere le distanze da quelle posizioni sì appoggiate (o sopportate) fino all’altro ieri, ma che ora tenderà ad identificare sempre di più come una scelta del governo Meloni.
Stesso paradosso nella destra, dove c’erano sempre state più o meno visibili riserve sull’intervento italiano e che oggi si trova spiazzata dalle manifestazioni di sabato, con il rischio di ritrovarsi a rappresentare da sola le posizioni Nato ed europee in una giravolta di posizioni per lo meno curiosa.
Presa dalla necessità di non dare spazio a critiche atlantiche, la Meloni ha voluto e dovuto scegliere la strada della continuità, pur sapendo benissimo che una buona fetta dei suoi elettori sarebbero i primi ad applaudire ad un progressivo sganciamento da posizioni di adesione acritica alla linea “dura e pura” fin qui seguita dall’Europa e dai suoi alleati.
Le piazze di sabato sono quindi politicamente importanti, ma vanno anche interpretate, perché non è certo un abbandono del campo a Putin che migliorerebbe la situazione. Piuttosto possono essere un avviso italiano a Zelensky a cambiare i toni e un invito a sedersi a un potenziale tavolo di pace, perché l’appoggio alleato non è infinito e sempre di più le opinioni pubbliche chiederanno uno sganciamento controllato.
In questo senso forse proprio la Meloni potrebbe essere, progressivamente e senza stappi, la portatrice ideale di una posizione nuova dell’Europa che si avvii ad aiutare l’Ucraina con impegni futuri sulla ricostruzione, piuttosto che continuando con una fornitura acritica di altre armi.
È un momento in cui anche Putin è debole ed ha interesse ad una tregua, perché dopo nove mesi questa guerra sta diventando una sconfitta anche per lui. Soprattutto perché i due blocchi hanno capito che l’avversario è teoricamente insuperabile salvo usare armi non convenzionali, mentre il fronte di fatto è bloccato.
Bisogna uscirne innanzitutto con una volontà di arrivare ad una conclusione.
Le parole vigorose espresse anche in Bahrein da Papa Francesco – che ha assunto in maniera forte questa posizione già dall’inizio del conflitto, purtroppo non ascoltato – partono dal presupposto che occorre innanzitutto una volontà di tregua per cominciare a valutare la situazione e, soprattutto in vista dell’inverno, concedersi una pausa umanitaria.
Ci si crede in queste possibilità? Le piazze dicono che è ora di insistere su questa strada e – aspetto importante – mettono anche in crisi la posizione oltranzista che la Nato ha assunto su questa vicenda a volte di aperta provocazione alla Russia e certamente non mantenendosi sul solo ruolo difensivo dell’Alleanza, che è apparsa in mano più ai falchi che alle colombe.
Sarà importante il voto americano di martedì: un ulteriore indebolimento di Biden darebbe più spazio a chi negli Usa comincia a storcere il naso sulla lunghezza del conflitto che pure ha rappresentato un ottimo affare per gli Usa. Una sconfitta democratica potrebbe far riflettere anche i vertici europei sull’opportunità di tenere una posizione di assoluta chiusura verso la Russia.
In fondo anche Putin deve trovare una via d’uscita e salvare la faccia perché non ha vinto la guerra e in qualche modo non ha interesse a portarla avanti ad oltranza. Al di là dell’ovvia ma confusa speculazione politica interna, le piazze di sabato chiedono di aprire uno spiraglio e di riflettere sull’incongruità di continuare in un assoluto muro contro muro.
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