Enrico Letta esprime soddisfazione per il risultato delle primarie che infatti hanno visto prevalere i suoi candidati con una buona affluenza, ma nei commenti si moltiplicano le perplessità, anche nei sostenitori del Pd, sulla sua guida del partito. In sostanza Letta punta tutto sull’alleanza con il nuovo M5S di Conte, ma l’ex premier è diventato un punto interrogativo che può trasformarsi in punto esclamativo. All’indomani delle vittoriose primarie è proprio la capogruppo Pd della Camera, Debora Serracchiani, che intervistata da “La Stampa” avverte che se Conte porta il M5S in conflitto con Draghi “si aprirebbe un problema per l’alleanza”.



 In effetti il punto di partenza del discorso programmatico di Letta al suo insediamento era quello di dar vita a una federazione da Leu a Calenda e Bonino senza escludere preventivamente Italia Viva di Renzi per poi trattare da posizioni di forza l’alleanza con il nuovo M5S a guida Conte. Questo scenario è sfumato ed è rimasto in piedi solo la coalizione a due con Conte (Leu si è frantumata e secondo i sondaggi la maggioranza è sfuggita con Frantoiani mentre con Speranza e D’Alema è rimasta una minoranza dell’elettorato).



Questa unica strada senza alternative imboccata da Letta ha portato a una gestione delle primarie che è stato un “taglia e cuci” su misura del futuro leader di quel che rimane del movimento fondato da Beppe Grillo. Le primarie oggi decantate da Letta come fatto identitario e di democrazia interna non si sono però svolte dappertutto proprio per non minare il rapporto con Conte. In Calabria Letta ha silurato il candidato inizialmente scelto e nuovamente indicato dal partito locale perché non gradito a Conte e ha quindi imposto al Pd la candidatura concordata con Conte di Maria Antonietta Ventura, un’imprenditrice con alle spalle una commessa di 450 milioni con un’altra Regione (“Per ora non c’è nessun conflitto. Se ci sarà lo risolverò in pochissimo tempo”: la sua sbrigativa replica). Anche a Napoli Letta ha evitato le primarie per potersi accordare con Conte dando il via libera al suo ex ministro Gaetano Manfredi.



Le primarie si sono quindi fatte a Torino perché il partito, a differenza della Calabria, ha avuto la forza – da Fassino a Chiamparino – di ribellarsi al “taglia e cuci” filo-M5S e a Bologna dove la minoranza ex renziana ha imposto una sfida che la maggioranza del Partito ha vinto grazie all’impegno del “governatore” Stefano Bonaccini che con parole non apologetiche di Letta dichiara: “Io credo che il Pd debba dotarsi di una propria identità, di un proprio programma”.

Su Roma Letta si accredita una vittoria però un po’ controversa. La candidatura di Gualtieri era stata da lui bloccata sul nascere in nome dell’accordo con Conte puntando su Zingaretti che aveva a tal fine appena fatto entrare nella giunta regionale il M5S. Ma la Raggi non ha desistito e prima con l’appoggio di Grillo e poi di Di Maio ha costretto Conte a schierarsi sulla sua ricandidatura.

Infine Milano dove le primarie non vale la pena di farle e l’accordo con Conte è talmente scontato che il M5S ha dichiarato di essere pronto a confluire su Beppe Sala già al primo turno. E’ il Sindaco che – lasciato il Pd e passato ai Verdi europei – frena la confluenza immediata perché potrebbe imbarazzare le liste “riformiste” e “civiche” che si vanno formando a suo favore.

Ma questo “taglia e cuci” di Letta a favore di Conte ha due evidenti criticità. La prima è l’invadenza di Conte nella vita interna del Pd. Non si era mai visto il leader di un altro partito esprimere preferenze e veti. Non solo là dove non c’era l’accordo di vertice e si sono fatte le primarie Conte – da Torino a Bologna – ha indicato per chi votare, ma anche a Napoli si è platealmente “annesso” il candidato con una presentazione monocolore da parte del M5S al motto: “Ti ricordi quanto ti ho chiamato e la tua iniziale titubanza?”.

La seconda e ben più grave criticità riguarda il rapporto con Draghi. Letta appare sempre più sballottato nella conflittualità Conte-Draghi. L’ex premier ormai non fa mistero che quando sarà finalmente eletto dalla nuova piattaforma parlerà “il linguaggio della verità”. Basta leggere “Il Fatto” di Marco Travaglio (che già con Goffredo Bettini aveva eterodiretto Conte nell’ultima crisi di governo e poi sostenuto la tesi del “complotto internazionale”) per avere quotidianamente il quadro di un culto della personalità di Conte e di una demonizzazione infamante di Draghi.

Sempre più si delinea cioè la spinta che il nuovo “movimento” a guida Conte – dopo le elezioni amministrative di ottobre e nel quadro del semestre bianco che non fa più temere ai deputati “grillini” lo scioglimento delle Camere e con il M5S che continua a scendere nei sondaggi – esca dalla maggioranza contendendo alla Meloni il monopolio dell’opposizione. Una prospettiva ancora dubbia, ma accreditata dal fatto che Draghi ha proceduto allo smantellamento del sistema di potere di Conte: dai servizi segreti al commissario Covid, dai navigator alla Cassa Depositi e Prestiti.

In questo caso il Pd dovrebbe scegliere tra Draghi e Conte con Letta che attualmente ha disegnato la sua strategia pensando di sostituire nel 2023 il primo avendo il secondo come segugio.

E’ così che vediamo succedersi il preoccupato “vertice” Letta-Di Maio, l’intervista della Serracchiani e lo stop di Grillo ai “pieni poteri” a Conte.

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